La Corte di Cassazione con la sentenza n. 16366 depositata il 30 luglio 2020 intervenendo in tema determinazione del valore delle quote societarie, trova applicazione l’articolo 9 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ai fini della tassazione delle plusvalenze derivante dalla cessione ha affermato che la predetta norma ” impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente, trattandosi di clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente di conseguire vantaggi fiscali – come lo spostamento dell’imponibile presso soggetti appartenenti al medesimo gruppo societario – mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.”
La vicenda ha riguardato due società a responsabilità limitate ed i relativi soci che avevano nel corso del 2003 effettuato una serie di scambi di quote societarie mediante atti notarili nei quali si dichiaravano valori del patrimonio sociale derivanti da perizie di stima asseverate dal Tribunale riguardanti il patrimonio immobiliare, le quote di partecipazione e i crediti e debiti iscritti in bilancio. L’Agenzia delle Entrate a seguito di accertamenti contabili, notificava alle società un avviso di accertamento sulla base che le stime sarebbero state parziali e le operazioni intercorse sarebbero state in realtà rivolte a celare plusvalenze con l’intento di realizzare un’evasione fiscale. avverso tale atto impositivo proponeva ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale. I giudici di prime cure non accolgono le doglianze della ricorrente. La contribuente propone ricorso alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di appello rigettano il ricorso. La contribuente impugna la decisione della CTR con ricorso in cassazione fondato su quattro motivi.
Gli Ermellini rigettano il ricorso della contribuente. In particolare riaffermano che “in tema di determinazione della plusvalenza Irpef ex articolo 67 d.P.R. n. 917/1986, la perizia giurata di stima di cui alla I. 448/01 non limita il potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria, desumendosi da essa unicamente il valore normale minimo di riferimento – ma non per questo intangibile – ai fini della tassazione sostitutiva.”
Inoltre, i giudici di legittimità, hanno ricordato che qualora il contribuente si avvalga della facoltà di rideterminazione del valore sulla base della perizia di stima, ai sensi dell’art. 7 L. n. 448/2001, l’ “Ufficio conserva il potere di accertare se lo stesso corrisponda o meno alla realtà, in quanto il richiamo dell’applicabilità a detta perizia dell’art. 64 cod, proc. civ. non attribuisce a questa la forza di atto pubblico, ma ha l’unico scopo di assoggettare il professionista incaricato dal privato alla responsabilità penale del consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice, né, del resto, la consulenza tecnica fa pubblica fede dei giudizi e delle valutazioni in essa contenuti”
Pertanto per i giudici del palazzaccio l’Agenzia delle Entrate può disattendere sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’attendibilità della perizia di stima redatta dal professionista.
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