COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE LAZIO – Ordinanza 07 novembre 2019
Tributi – IRES – Applicazione, per il periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2013, di un’addizionale di 8,5 punti percentuali per gli enti creditizi e finanziari, per la Banca d’Italia e per le società e gli enti che esercitano attività assicurativa – Art. 2, co. 2 del Decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 – Questione di legittimità costituzionale
Svolgimento del processo
A.M. Assicurazioni Danni S.p.a. impugnava innanzi la CTP di Roma il silenzio-rifiuto dell’Agenzia delle Entrate in ordine all’istanza presentata in data 28 dicembre 2015, avente ad oggetto il rimborso della maggiore IRES che sarebbe stata indebitamente versata per il periodo d’imposta 2013, per effetto dell’addizionale dell’8,5%, per un ammontare complessivo di euro 2.710.521,00 oltre ad interessi.
Tale addizionale era stata introdotta per il solo anno d’imposta 2013 dall’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013 (convertito con modifiche dalla legge n. 5/2014) ed era stata posta a carico degli enti creditizi e finanziari, della Banca d’Italia e degli enti che esercitano attività assicurativa.
In conseguenza di tale intervento normativo la misura dell’acconto dovuto per il 2013 ai fini dell’imposta era stata incrementata di un ulteriore 1,5% (portando, pertanto, al 130% la misura definitivamente dovuta per l’acconto) ad opera di un provvedimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze emanato lo stesso giorno del decreto (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 11. 282 del 2 dicembre 2013).
La ricorrente in primo grado sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013 con riferimento alla violazione dell’art. 3 (principio di uguaglianza) e 53 della Costituzione (principio di capacità contributiva); eccepiva inoltre la discriminazione qualitativa dei redditi con riferimento alla sentenza della Corte costituzionale del 2005, n. 21, l’illegittimità dell’addizionale per contrarietà alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato, la violazione dell’art. 77 della Costituzione in ordine ai presupposti di necessità ed urgenza per l’adozione di un decreto-legge, la violazione dell’art. 41 della Costituzione e del principio di libera iniziativa economica, e la violazione dell’art. 19, comma 1, lettera g), del decreto legislativo n. 546/1992.
Concludeva quindi per l’annullamento del silenzio-rifiuto opposto dall’Ufficio e la conseguente condanna dello stesso al rimborso della maggiore IRES versata per l’anno 2013.
Si costituiva in giudizio l’Agenzia contestando in diritto e nel merito le pretese avversarie e, richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali in suo favore, chiedeva il rigetto del ricorso.
La CTP rigettava il ricorso e compensava le spese di lite ritenendo che non vi fossero i presupposti per la remissione al vaglio della Corte costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013, con riferimento alla dedotta violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione, in quanto il legislatore può legittimamente introdurre specifiche tassazioni a carico di determinate categorie di contribuenti senza incorrere in una violazione del principio costituzionale di capacità contributiva, salvo che le misure adottate siano palesemente irrazionali o manifestamente sproporzionate. Nel caso di specie, ad avviso della CTP, l’introduzione della norma contestata non aveva dato luogo ad una differenziazione ingiustificata ed arbitraria, dal momento che l’inasprimento tributario era caratterizzato da profili di eccezionalità e di transitorietà e perseguiva dichiaratamente un intento solidaristico e redistributivo, come risultava dagli atti del Governo che giustificavano la norma con la necessità di reperire – in via straordinaria e temporanea – le somme necessarie per alleggerire gli oneri fiscali gravanti sule fasce più deboli della popolazione mediante l’abolizione della seconda rata dell’IMU per le abitazioni principali e le fattispecie assimilate, attribuendone temporaneamente l’onere a soggetti ritenuti economicamente e finanziariamente più forti.
La CTP riteneva altresì infondata la doglianza relativa alla violazione dell’art. 77 della Costituzione, in ordine ai presupposti per l’adozione di un decreto-legge, posto che dalle relazioni ministeriali e governative era del tutto evidente che la notoria situazione di emergenza economica e sociale posta a base del decreto-legge n. 113 del 2013 (impellente necessità di sostenere le famiglie nella difficile fase congiunturale del 2013) consentiva di escludere che esso fosse stato adottato in una situazione di evidente mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza. L’abolizione della seconda rata dell’IMU e la conseguente introduzione dell’addizionale IRES erano strettamente connesse e la collocazione della norma istitutiva di tale addizionale nell’alveo del decreto-legge n. 133/2013 trovava invece una precisa giustificazione proprio nella relazione funzionale tra le due disposizioni e rispondeva ad una precisa scelta di politica economica finalizzata a far fronte all’eccezionale emergenza sociale del momento.
La CTP riteneva infondata anche la terza doglianza relativa alla discriminazione qualitativa dei redditi con riferimento alla sentenza della Corte costituzionale del 2005, n. 21, in quanto tale sentenza aveva stabilito che non vi è violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione qualora il legislatore stabilisca in via provvisoria un onere maggiore nei confronti di alcuni settori economici a seguito di una valutazione di un minore impatto del tributo ed anche per una scelta di politica redistributiva a favore dei contribuenti più deboli.
Anche l’eccepita illegittimità dell’addizionale per contrarietà alla disciplina comunitaria era ritenuta infondata dalla CTP, la quale osservava che gli aiuti di Stato sono intesi quali finanziamenti a favore di imprese o produzioni, sia provenienti dallo Stato sia da altri soggetti quali le imprese pubbliche; nel caso di specie, invece, si era di fronte ad un inasprimento fiscale temporaneo ed urgente indirizzato verso soggetti economicamente forti (banche ed enti assicurativi) al fine di reperire le somme necessarie per alleggerire gli oneri fiscali gravanti sulle fasce più deboli, soggetti peraltro che appartengono ad una categoria omogenea di contribuenti.
L’eccepita violazione dell’art. 41 della Costituzione e del principio di libera iniziativa economica erano ritenute altresì infondate dalla CTP in quanto eccezioni dilatorie, costituenti ripetizione di argomentazioni già esplicitate, ma anche perché, in sintesi, le pur legittime aspettative dei soci della società contribuente non potevano certamente essere predominanti rispetto alle più legittime aspettative delle classi sociali più deboli.
Infine, l’ultima doglianza relativa alla presunta violazione dell’art. 19, comma 1, lettera g), del decreto legislativo n. 546/1992, era rigettata dalla CTP considerata la legittimità del silenzio-rifiuto opposto dall’Amministrazione fiscale.
In data 10 maggio 2019 proponeva appello la contribuente eccependo:
la nullità della sentenza per insufficienza e contraddittorietà della motivazione in quanto, se da un lato la CTP aveva affermato che l’applicazione della addizionale IRES sulle assicurazioni non avrebbe fatto «sorgere alcuna discriminazione fiscale», dall’altro aveva affermato che i principi costituzionali «non impongono un carico fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria» ed infine che si «esige un indefettibile raccordo con la capacità contributiva». In particolare vi sarebbe stata una radicale incompatibilità tra un prelievo che aggrava la posizione fiscale solo di alcuni operatori economici e l’art. 53 della Costituzione, salvo che sia dimostrato un diverso atteggiarsi della capacità contributiva colpita da quel prelievo, e che questo giustifichi la differente intensità dell’obbligo tributario. Tali circostanze non sarebbero, tuttavia, dimostrate nel caso di specie; l’erroneo rigetto dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’addizionale per violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione in quanto tale aggravio aveva determinato un trattamento diseguale sul piano della contribuzione fiscale ai danni del settore bancario ed assicurativo, posto che le imprese di tutti gli altri settori ne sono state esonerate. Tale aggravio non era però giustificato alla luce dei valori costituzionali che, come stabilito dalla stessa Corte costituzionale, richiedono che il settore sottoposto ad una tassazione maggiorata deve presentare delle peculiarità che consistono, sostanzialmente, in una redditività maggiore rispetto a quella di altri settori o in una eccezionale redditività dell’attività svolta in un settore che presenta caratteristiche privilegiate in un dato momento congiunturale.
Nessuna delle specificità richieste dalla Corte costituzionale sarebbe stata ravvisabile nel caso di specie, posto che i settori bancario ed assicurativo presentano l’unica peculiarità di essere assoggettati a penetranti controlli da parte delle autorità di vigilanza. Non sarebbe stato quindi dimostrabile che i soggetti operanti nel settore dell’intermediazione finanziaria e delle assicurazioni siano dotati di una capacità contributiva superiore a quella di altri settori tale da giustificare questo aggravio fiscale. Né per giustificare l’extraprelievo in esame, si potrebbe, a detta dell’appellante, invocare la natura temporanea dell’aumento di tassazione in quanto questa comunque deve rispondere a criteri di adeguata ragionevolezza per non ledere i principi di capacità contributiva e di uguaglianza;
l’erroneo rigetto dell’eccepita contrarietà dell’addizionale all’art. 77 della Costituzione in quanto sarebbero mancati i requisiti di necessità e di urgenza necessari per l’esercizio della funzione legislativa del governo con lo strumento del decreto-legge.
Le maggiori entrate derivanti dall’addizionale IRES sarebbero state, infatti, destinate al finanziamento dell’ammanco di gettito conseguente all’abolizione della seconda rata dell’IMU a carico delle prime case non di lusso: non vi sarebbe stata, quindi, nessuna urgenza se non quella di sopperire alla carenza di gettito erariale derivante dall’abolizione dell’ICI sulle prime case. L’attuazione di un programma politico del governo non potrebbe costituire, in ogni caso, una situazione straordinaria idonea a legittimare il ricorso alla decretazione di urgenza;
l’addizionale, diversamente da quanto statuito dai primi giudici, avrebbe violato anche l’art. 41 della Costituzione, che tutela la libertà di iniziativa economica in quanto le imprese del settore assicurativo e bancario erano state private, all’improvviso, di ingenti risorse necessarie per lo svolgimento della loro attività. Il legittimo affidamento tutelato dall’art. 41 della Costituzione avrebbe comportato l’aspettativa che le modifiche normative non frustrassero le iniziative economiche già assunte ed i costi già sostenuti, senza consentire al privato di ridirigere le proprie scelte imprenditoriali;
la sentenza di primo grado sarebbe stata, altresì, censurabile laddove non aveva riconosciuto la violazione del diritto comunitario in quanto l’addizionale di cui si discute si sarebbe scontrata con molteplici principi statuiti dal Trattato dell’Unione Europea. L’introduzione dell’addizionale, infatti, avrebbe di fatto alterato le dinamiche competitive determinando un effettivo pregiudizio alla concorrenza derivante dall’intervento dello Stato sui mercati, in violazione degli articoli 3, 10 e 81 del Trattato. Inoltre, vi sarebbe stata violazione degli articoli 87 e 88 del Trattato della Comunità Europea in quanto l’inasprimento fiscale a carico di alcuni operatori si sarebbe tradotto in un illegittimo aiuto di Stato, in favore delle imprese non colpite da tale aggravio perché la nozione di aiuto di Stato in ambito comunitario comprenderebbe non solo le sovvenzioni positive, ma anche gli interventi «in negativo». Pertanto, poiché l’addizionale in parola si qualifica come un prelievo asimmetrico che grava solo su alcuni operatori economici e non su altri che pur si trovano in concorrenza con i primi, essa si configurerebbe come «sovvenzione indiretta», censurabile a livello comunitario. Conseguentemente, sarebbero state alterate le condizioni di concorrenza sul mercato, a vantaggio di alcuni operatori.
La contribuente inoltre rilevava che la violazione dei menzionati principi costituzionali era stata rilevata, successivamente all’instaurazione del presente contenzioso, anche dalla CTR del Piemonte con l’ordinanza n. 345/2018, con la quale quella Commissione aveva ritenuto non manifestamente infondata e rilevante al fine della decisione della controversia l’eccezione di legittimità costituzionale proposta dalla difesa dell’appellante, nonché dalla CTR di Trento con ordinanza n. 25/2019.
Il contribuente chiedeva dunque:
in via principale la riforma della sentenza impugnata con la conseguente condanna dell’Agenzia al rimborso dell’addizionale per euro 2.710.521,00 per IRES oltre ad interessi maturati e maturandi per legge;
in via subordinata di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’addizionale IRES di cui all’art. 2 del decreto-legge n. 133/2013 per violazione dell’art. 3, 41, 53 e 77 della Costituzione o, in alternativa, di rimettere la questione di compatibilità con l’ordinamento dell’Unione europea della predetta addizionale alla Corte di Giustizia;
in ulteriore subordine, di sospendere il giudizio in attesa della pronuncia della Consulta in merito alla questione di legittimità costituzionale sollevata a seguito dell’ordinanza n. 345/2018 dalla CTR del Piemonte e dell’ordinanza n. 25/2019 della CTR di Trento.
Si costituiva l’Agenzia delle entrate contestando tutto quanto eccepito dall’appellante e chiedendo il rigetto dell’appello, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.
In data 2 ottobre 2019 il contribuente depositava memoria illustrativa con la quale ricordava come i profili di incostituzionalità sollevati nel presente giudizio fossero già stati rimessi, da altre Commissioni di merito, alla valutazione della Corte costituzionale, e ribadendo le argomentazioni già svolte nell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio insisteva per le istanze ivi formulate.
All’udienza, previa discussione orale, la Commissione tratteneva la causa a decisione.
Motivi della decisione
La causa trae origine dal decreto-legge del 30 novembre 2013, n. 133, convertito con modificazioni nella legge n. 5/2014, che ha istituito una tassazione aggiuntiva all’IRES per il solo anno d’imposta 2013, nella misura dell’8,5%, a carico degli enti creditizi e finanziari, della Banca d’Italia e degli enti assicurativi. Tale addizionale è diretta a colpire non solo il sovraprofitto ma l’intero reddito dei contribuenti. Per effetto di tale provvedimento la misura dell’acconto dovuto per il 2013 ai fini dell’imposta è stata incrementata di un ulteriore 1,5% (portando, pertanto, l’acconto al 130% dell’imposta dovuta per l’annualità in corso) ad opera dì un provvedimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze emanato lo stesso giorno del decreto (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 11. 282 del 2 dicembre 2013).
Come risulta dai lavori preparatori della legge di conversione ed in particolare dalla relazione di accompagnamento del disegno di legge di conversione del decreto-legge, il gettito derivante dall’addizionale prevista dall’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013 è stato destinato al finanziamento della copertura dell’abolizione della seconda rata dell’IMU dovuta sui beni immobili.
L’odierno appellante ha sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale relative alla previsione di tale addizionale, tra le quali la Commissione ritiene rilevante e non manifestamente infondata solo quella relativa alla violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione.
Come più volte affermato dalla Corte costituzionale, il principio di capacità contributiva previsto dall’art. 53 della Costituzione è il presupposto e il limite del potere impositivo dello Stato e, al tempo stesso, del dovere del contribuente di concorrere alle spese pubbliche, dovendosi interpretare detto principio come specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione (Corte costituzionale n. 258/2002, n. 341/2000, n. 155/1963).
Ciò non significa che la Costituzione imponga una tassazione fiscale uniforme, tuttavia, secondo gli orientamenti costantemente seguiti dalla Corte, ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate e comprovate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione. Le distinzioni operate dal legislatore tributario, anche per settori economici, non devono dunque essere irragionevoli, arbitrarie o ingiustificate: cosicché il giudizio di legittimità costituzionale deve vertere «sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111/1997; in senso conforme n. 111/2013 e n. 223/2012).
Nel caso di specie il diverso trattamento fiscale introdotto con il decreto-legge del 30 novembre 2013, n. 133, non sembra soddisfare i requisiti di adeguatezza e ragionevolezza richiesti dai principi sopra enunciati.
La Corte costituzionale pronunciandosi su analoga questione (avente ad oggetto la c.d. Robin Tax introdotta con il decreto-legge n. 112/2008) ha infatti statuito che «affinché il sacrificio recato ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva non sia sproporzionato e la differenziazione dell’imposta non degradi in arbitraria discriminazione la sua struttura deve coerentemente raccordarsi con la relativa ratio giustificatrice. Se, come nel caso in esame il presupposto economico che il legislatore intende colpire è la eccezionale redditività dell’attività svolta in un settore che presenta caratteristiche privilegiate in un dato momento congiunturale, tale circostanza dovrebbe necessariamente riflettersi sulla struttura dell’imposizione» (Corte costituzionale, sentenza n. 10/2015).
Nel caso di specie, l’eccezionale redditività del settore colpito dall’aggravio fiscale non è dimostrata e neppure allegata nei lavori preparatori della legge di conversione, posto che il settore bancario e finanziario presentano sì una maggiore liquidità ma non per questo una maggiore redditività, ed è infatti nota la crisi economica che ha colpito anche i settori in esame proprio durante il periodo in cui è stato introdotto l’aggravio fiscale.
Non è neppure dimostrato che le banche e le assicurazioni nel periodo oggetto di imposizione abbiano ottenuto sovraprofitti riconducibili a rendite di posizione o a vantaggi congiunturali. Inoltre, per quanto riguarda la struttura dell’imposizione può osservarsi che l’addizionale non risulta ancorata ad un indice di capacità contributiva né il legislatore rende manifesta l’intenzione di colpire un maggior reddito o un volume di affari superiore ad un dato valore.
L’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013, infatti, applica l’aliquota dell’imposta aumentata dell’addizionale di 8,5% al reddito complessivo netto, senza individuare alcun elemento in grado di giustificare il sacrificio patrimoniale al quale viene sottoposta una determinata categoria di soggetti, lasciandone indenni altri, a parità di capacità contributiva e non prevedendo un meccanismo che consenta di tassare più severamente solo l’eventuale parte di reddito connessa alla presunta posizione privilegiata dell’attività esercitata dal contribuente.
Va anzi sottolineato che l’unica ratio addotta della maggior imposizione è la necessità di coprire il deficit di bilancio che sarebbe derivato dalla soppressione della seconda rata IMU, parendo evidente che il legislatore abbia preso in considerazione banche ed assicurazioni per la maggior facilità del prelievo rispetto ad altre categorie di contribuenti. Si è quindi tassato non il maggior reddito o la presunta maggior capacità di realizzare profitti, ma la maggior liquidità e la presunta maggior solidità delle imprese bancarie ed assicurative. Può dunque concludersi che non vi sono le ragioni richieste dall’art. 53 della Costituzione, secondo la consolidata interpretazione datane dalla Corte costituzionale, per l’introduzione di una diversificazione del regime tributario a scapito soltanto di alcuni soggetti, concretizzandosi dunque l’addizionale prevista dal decreto-legge n. 133/2013 in una violazione del principio di capacità contributiva e di uguaglianza. Deve rilevarsi, peraltro, che l’inasprimento fiscale gravava solo sull’anno di imposta 2013 e che la Corte costituzionale ha espressamente ritenuto non illegittimi casi di temporaneo inasprimento dell’imposizione proprio in forza della loro limitata durata, specificando tuttavia che tali aggravi, anche se di breve durata, debbono sempre ancorarsi ad una adeguata giustificazione obiettiva che sia coerentemente tradotta nella struttura dell’imposta. Non pare, per le ragioni già esposte, che siffatti requisiti sussistano nel caso di specie.
Va sottolineato che il giudice di primo grado ha ritenuto che la maggior imposizione potrebbe essere giustificata da ragioni di solidarietà sociale, ma tali ragioni, spiegate dalla Commissione di primo grado con il fatto che altrimenti l’IMU avrebbe continuato a gravare su contribuenti in maggior difficoltà negando la funzione sociale della prima casa, non sono idonee da sole, in difetto di un obiettivo indice di maggior capacità contributiva, a superare i rilievi che si sono formulati. Resta a dire della rilevanza della dedotta questione di legittimità costituzionale. Essa è in re ipsa perché la domanda di rimborso di cui la contribuente lamenta il rigetto in tanto può trovare accoglimento in quanto venga meno il precetto contenuto nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013. In proposito va aggiunto che questa Commissione è consapevole che in altra occasione la Corte costituzionale ha ritenuto derogabile il principio di retroattività delle sentenze declaratorie dell’illegittimità costituzionale di una norma dì legge. Basti ricordare che la Corte costituzionale ha previsto l’irretroattività della sentenza di incostituzionalità relativa alla c.d. Robin Tax motivando che «l’impatto macroeconomico delle restituzioni (…) determinerebbe uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva» (Corte costituzionale n. 10/2015). Tuttavia rientra nella discrezionalità della Corte costituzionale la scelta del regime intertemporale da applicare alle sue decisioni in base alla singola portata di ciascuna di esse. Nella ricordata sentenza la Corte ha sottolineato che il giudizio di rilevanza è di competenza del giudice a quo, mentre l’eventuale ritenuta irretroattività della pronuncia di illegittimità costituzionale non può incidere su tale valutazione perché è rimessa al giudice ad quem.
Va dunque dichiarata non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimità costituzionale derivante dall’arbitraria ed irragionevole maggiorazione fiscale imposta dal legislatore con l’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013 per contrasto con gli articoli 53 e 3 della Costituzione.
La Commissione ritiene, invece, manifestatamente infondati gli altri dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalla parte appellante.
Quanto alla violazione dell’art. 77 della Costituzione appare evidente che la necessità di assicurare la stabilizzazione della finanza pubblica non deriva solo da una scelta discrezionale del governo in carica, ma è una conseguenza dei molteplici interventi normativi, finalizzati alla revisione complessiva della tassazione degli immobili, susseguitisi nel corso del tempo. Non si tratta dunque della mera attuazione di un programma politico, ma di un intervento che è conseguenza delle modificazioni del tessuto economico e normativo rese necessarie non solo dall’attuazione di quel programma, ma dalle ragioni economiche e sociali che quel programma hanno imposto.
La situazione di difficoltà economica venutasi a creare rappresenta ragione sufficiente per escludere, dunque, la mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza che hanno condotto all’emanazione del decreto-legge n. 133/2013.
Per quanto riguarda, infine, la eccepita violazione dell’art. 41 della Costituzione e del principio di libera iniziativa economica, deve ritenersi che un maggior prelievo fiscale non sia incompatibile con tale principio. L’addizionale prevista dal decreto-legge n. 133/2013 non ha infatti compromesso in modo irreparabile la continuità aziendale delle imprese bancarie ed assicurative e non ha pertanto leso la libertà di iniziativa economica. A riprova di quanto detto basti pensare che altri casi di inasprimento fiscale, anche temporaneo, non sono stati ritenuti in contrasto con il principio di libertà di iniziativa economica da parte della Corte costituzionale.
Per quanto detto, la Commissione, visto l’art. 23 della legge n. 87/1953, ritiene non manifestamente infondata ed irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 133/2013, convertito con modificazioni nella legge n. 5/2014 per contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione.
P.Q.M.
visti gli articoli 1 legge costituzionale n. 1/1948 e 23 legge n. 87/1953, così provvede: dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge n. 133/2013;
dichiara manifestatamente infondate le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate;
dispone la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
sospende la presente causa R.G. 2865/2019;
ordina alla segreteria che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati.
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