CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 giugno 2021, n. 18611
Gestione commercianti – Omessa contribuzione – Cartella esattoriale – Abitualità e la prevalenza dell’attività lavorativa
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 3.4.2017, la Corte d’appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato l’opposizione proposta da R. M. avverso la cartella esattoriale con cui gli era stato ingiunto il pagamento di contributi dovuti alla Gestione commercianti nel periodo 1997-2003.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che dovesse attribuirsi valore probatorio decisivo alla dichiarazione resa dall’assicurato nel 1999 circa l’abitualità e la prevalenza dell’attività lavorativa svolta a beneficio di M.C.T. s.r.I., della quale egli era anche amministratore delegato e per ciò iscritto alla Gestione separata.
Avverso tali statuizioni R. M. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura, poi ulteriormente illustrati con memoria. L’INPS ha depositato delega in calce al ricorso notificatogli, mentre la società concessionaria dei servizi di riscossione non ha svolto attività difensiva.
La causa è stata rimessa alla pubblica udienza con ordinanza n. 9543 del 2019 della Sesta sezione civile di questa Corte. Il Pubblico ministero ha presentato conclusioni scritte, con cui ha chiesto l’accoglimento del secondo motivo e la declaratoria d’inammissibilità del primo. In vista dell’udienza pubblica, parte ricorrente ha depositato ulteriore memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 203 e 208, l. n. 662/1996, come interpretato dall’art. 12, comma 11, d.l. n. 78/2010 (conv. con l. n. 122/2010), in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c., per avere la Corte di merito attribuito valore probatorio decisivo alla dichiarazione da lui resa nel 1999 circa l’abitualità e la prevalenza dell’attività resa in favore di M.C.T. s.r.I., della quale era anche amministratore unico e per ciò iscritto alla Gestione separata: ad avviso di parte ricorrente, infatti, avrebbero errato i giudici di merito nel non considerare che detta dichiarazione era stata rilasciata nove anni prima dei fatti per cui è causa e, oltre a non essere corroborata da ulteriori elementi di prova o almeno indiziari, risultava smentita dalle deposizioni rese sul punto dal teste P.. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso l’esame dell’eccezione di prescrizione che era stata formulata in subordine nel ricorso introduttivo del giudizio e non era stata riproposta nella memoria di costituzione in appello.
Ciò premesso, il primo motivo è inammissibile.
Questa Corte, invero, ha recentemente e convincentemente ribadito che qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri che individuano una presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento può essere censurato in sede di legittimità ex art. 360 n. 3 c.p.c., dovendosi pur sempre verificare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (così Cass. nn. 19485 del 2017 e 29635 del 2018, entrambe sulla scorta di Cass. n. 17535 del 2008).
Tuttavia, per restare nell’ambito della violazione di legge, la critica della sentenza impugnata deve concentrarsi sull’insussistenza dei requisiti della presunzione nel ragionamento condotto dal giudice, contestando o quello della gravità, perché difetta la c.d. inferenza probabilistica rispetto al fatto noto, o quello della precisione, nel senso che la presunzione presenta inferenze probabilistiche plurime e non quella sola assunta dal giudice di merito, ovvero quello della concordanza, per avere il giudice impiegato dati fattuali tra loro dissonanti rispetto alla presunzione stessa; non può invece svolgere argomentazioni dirette puramente e semplicemente a infirmare la plausibilità del ragionamento presuntivo condotto dal giudice di merito, criticando la ricostruzione del fatto che questi abbia operato ed evocando magari altri fatti che non risultino dalla motivazione, dal momento che ciò implicherebbe lo sconfinamento della censura dal paradigma della violazione dell’art. 2729 c.c. e il suo approdo in una dimensione che, se del caso, potrebbe piuttosto trovare legittimazione nel paradigma dell’art. 360 n. 5 c.p.c., s’intende nei limiti del controllo della motivazione sulla quaestio facti, siccome chiariti da Cass. S.U. n. 8053 del 2014 e innumerevoli succ. conf.-
Sta qui, ad avviso del Collegio, il nucleo di verità del meno recente orientamento di questa Corte, secondo cui, viceversa, sarebbe incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti adesso segnati dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (così, tra le più recenti, Cass. nn. 3983 del 2003, 9225 del 2005, 21745 del 2006, tutte assertivamente richiamate da Cass. n. 1234 del 2019): posto infatti che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione della norma recata da una disposizione di legge da parte del provvedimento impugnato, riconducibile o ad un’erronea interpretazione della medesima ovvero nell’erronea sussunzione del fatto così come accertato entro di essa, non è logicamente possibile configurare una violazione dell’art. 2729 c.c. mediante il richiamo a risultanze istruttorie di segno contrario rispetto alla presunzione costruita dal giudice di merito, dal momento che ciò equivarrebbe a confondere la violazione di legge con l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che viceversa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce, appunto, alla tipica valutazione del giudice di merito.
Sotto questo profilo, anzi, reputa il Collegio di non poter condividere l’affermazione di Cass. n. 19485 del 2017, cit., secondo la quale, ai fini della valutazione del rispetto del requisito della concordanza, bisognerebbe valutare se «vi siano elementi probatori dissonanti rispetto alla presunzione» (così pag. 13, § 1.3.2, della parte motiva): ciò che può rilevare, ai fini della violazione dell’art. 2729 c.c., è piuttosto che il giudice di merito ne abbia fatto uso nel suo ragionamento inferenziale, diversamente ricadendosi nel proprium dell’apprezzamento (presuntivo) del fatto, che invece a quel giudice è rimesso in via esclusiva. Ciò chiarito, e venendo al caso di specie, è agevole rilevare che le censure di parte ricorrente rispetto all’impiego presuntivo della sua dichiarazione per il periodo successivo al tempo in cui fu resa non concernono l’insussistenza del requisito della gravità o quello della precisione del fatto noto, né l’impiego di elementi fattuali intrinsecamente dissonanti rispetto al fatto presunto, ma pretendono piuttosto di infirmare l’accertamento di quest’ultimo contrapponendovi un altro fatto, asseritamente desumibile dalla deposizione testimoniale di un soggetto che, come accertato dai giudici di merito, rivestiva, in quanto consulente esterno dell’azienda, «una posizione che non comporta una continua presenza nella sede sociale» (così la sentenza impugnata, pag. 2) e che, proprio per ciò, è stato ritenuto inidoneo a smentire la presunzione medesima. Ed è evidente che, posta in questi termini, la censura non individua né un vizio di violazione di legge né l’omesso esame circa un fatto decisivo, ma mira surrettiziamente ad una rivalutazione del materiale istruttorio acquisito al processo, che è cosa non consentita in questa sede di legittimità. Fondato è viceversa il secondo motivo, in relazione al quale la Sesta sezione civile di questa Corte ha rimesso la causa alla pubblica udienza: è sufficiente, al riguardo, ricordare che nel giudizio di appello, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., la necessità di riproporre le eccezioni che non siano state oggetto di alcun esame, diretto o indiretto del primo giudice, non riguarda le eccezioni rilevabili d’ufficio, sulle quali, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., sussiste invece per il giudice un obbligo di decidere indipendentemente dalla riproposizione di parte (così Cass n. 28926 del 2018), e che, rispetto ai contributi previdenziali, vige il divieto di ordine pubblico di corrisponderli dopo che ne sia maturata la prescrizione (art. 3, comma 9, l. n. 335/1995), la quale pertanto opera di diritto, indipendentemente da qualunque eccezione di parte, ed è rilevabile d’ufficio, non potendo gli enti previdenziali procedere ad azioni coattive volte al recupero delle contribuzioni omesse ed essendo anzi tenuti a restituire d’ufficio i pagamenti dei debiti prescritti effettuati anche spontaneamente, in deroga alla disposizione contenuta nell’art. 2940 c.c., in ragione del carattere estintivo e non meramente preclusivo della prescrizione stessa (così Cass. S.U. n. 23397 del 2016 e succ. conf.). E poiché, nella specie, risulta per tabulas che i giudici territoriali hanno omesso qualunque pronuncia sulla prescrizione, che pure era stata eccepita nel ricorso introduttivo del giudizio, la sentenza impugnata, in accoglimento del secondo motivo, va cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
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