CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 febbraio 2022, n. 3096
Tributi – Imposte di registro – Distinti atti di conferimento di ramo d’azienda e di cessione di partecipazioni quote societarie – Riqualificazione in operazione unitaria di cessione di ramo d’azienda – Art. 20 del DPR n. 131 del 1986 – Illegittimità
Rilevato che
Le società indicate in epigrafe, con distinti ricorsi, hanno impugnato l’avviso di liquidazione, notificato a ciascuna di esse, con il quale l’Agenzia, ai sensi dell’art. 20 del DPR 131/1986 ha preteso maggiore imposta di registro riqualificando gli atti di conferimento di ramo d’azienda e di cessione di partecipazioni quote societarie, posti in essere dalle predette società in diversi momenti, come una unitaria operazione di cessione di ramo d’azienda, in ragione del ritenuto collegamento negoziale.
I ricorsi sono stati riuniti in primo grado e respinti; le società hanno proposto appello, che la Commissione regionale della Lombardia ha respinto, ritenendo fondata la tesi dell’ufficio che ha riqualificato l’atto sottoposto a tassazione, non necessario il contraddittorio preventivo e ritenendo che le diverse operazioni avessero un’unica finalità e quindi costituissero un’unica e complessa operazione di cessione del ramo di azienda.
Le società contribuenti hanno proposto ricorso per cassazione affidandosi a cinque motivi.
Si è costituita con controricorso l’ Agenzia delle entrate.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta concludendo per l’accoglimento del terzo e quarto motivo.
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, del decreto – legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, nonché dell’art. 7 D.L. 23 luglio 2021 n. 105, conv. dalla legge 16 settembre 2021, n. 126, senza l’intervento in presenza del Procuratore Generale, e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
Ritenuto che
1. – Con il primo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 del D.lgs. 546/1992. I ricorrenti deducono che -contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello- l’atto d’appello è ammissibile anche se contiene e ripropone le stesse considerazioni di primo grado e che ha quindi errato il giudice di secondo grado.
Con il secondo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell’art 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art.12 comma 7 della legge 212/2000 nonché dell’art. 37 bis del DPR 600/1973, per il mancato espletamento del contraddittorio preventivo tra contribuente e l’Agenzia.
Con il terzo motivo del ricorso si lamenta ex art 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del DPR 131/1986, deducendo che l’imposta di registro è un’imposta d’atto e che essa si applica secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici del singolo atto presentato per la registrazione.
Con il quarto motivo del ricorso si lamenta ex art 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del DPR 131/1986, deducendo che dando una connotazione antielusiva all’art. 20 cit., sarebbero violate le garanzie in tema di contraddittorio.
Con il quinto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 4, la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda volta a far dichiarare il difetto di legittimazione passiva della società S..
2. – I motivi secondo e terzo vanno esaminati congiuntamente e preliminarmente per il loro carattere potenzialmente assorbente, in applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., (Cass. 363/2019), e sono fondati.
2.1. – Ai sensi dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, come modificato dall’art. 1, comma 87 della L. n. 205/2017 e dall’art. 1, comma 1084 della L. n. 145/2018, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione deve avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extratestuali.
Prima degli interventi normativi del 2017/2018 la giurisprudenza di questa Corte, con alcune isolate pronunce, aveva affermato il principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella ” forma apparente “‘ alla quale lo stesso art. 20, (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017), fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019 e n. 6790/2020). In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre. Ciononostante, la giurisprudenza maggioritaria era orientata nel senso che dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).
L’intervento legislativo è avvenuto in due tempi: dapprima con la legge di bilancio 2018 (legge 25/2017) affermando la necessità di applicare l’imposta “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati” e la seconda con la legge di bilancio 2019 (legge 145/2018) affermando che si tratta di una norma di interpretazione autentica e quindi dotata – per definizione – di efficacia retroattiva (cfr. Cass., n. 23549/19), essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal legislatore medesimo.
In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale,, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.
2.2. – La Corte Costituzionale, premesso che l’interpretazione evolutiva, cui la giurisprudenza della Corte di cassazione è pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro, non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata, ha osservato che l’esclusione dalla rilevanza interpretativa degli elementi extratestuali e degli atti collegati, disposta dal legislatore con i menzionati interventi normativi del 2017 e 2018, non si pone in contrasto con i parametri costituzionali.
Infatti, “il legislatore, con la denunciata norma ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico”, salvaguardando “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”.
Ha aggiunto che gli evocati parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 Cost., non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” dello stesso testo unico. Ha, inoltre, evidenziato che l’interpretazione evolutiva dell’art. 20, incentrata sulla nozione di causa reale, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, in quanto “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale”, pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea.
Ciò non toglie che eventuali condotte di sottrazione all’imposizione di effettiva ricchezza imponibile possa rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto, alla cui repressione, tuttavia, non è funzionale la disposizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.
2.3. – Con successiva sentenza n. 39 del 16 marzo 2021 la Corte Costituzionale ha ribadito il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, in relazione alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost..
Nel richiamare la precedente pronuncia la Corte ha ritenuto che la retroattività conseguente alla natura di interpretazione autentica riconosciuta alla L. n. 205 del 2017, art..1, comma 87, lett. a), trova adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasta con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, avuto riguardo al carattere di sistema assunto dall’intervento legislativo oggetto di scrutinio, e che, per tale motivo, si sottrae al dubbio sollevato dal remittente.
Evidenzia, inoltre, che la medesima ragione impone di disattendere la censura di irragionevolezza della disposizione anche sotto il profilo della ipotizzata violazione dei “motivi imperativi di interesse generale” desumibili dall’art. 6 CEDU, sottolineando che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione e non viceversa.
3.- In sintesi, il legislatore, con un intervento ritenuto conforme ai parametri costituzionali, ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
La più recente giurisprudenza di questa Corte si è pertanto orientata nel senso che: “In tema di imposta di registro, ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 – nella formulazione successiva alla l. n. 205 del 2017 che, secondo l’art.1, comma 1084, della l. n. 145 del 2018, ne ha fornito l’interpretazione autentica e alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021 – è legittima l’attività di riqualificazione dell’atto da registrare da parte dell’Amministrazione soltanto se operata “ab intriseco”, cioè senza alcun riferimento agli atti ad esso collegati e agli elementi extratestuali, non potendosi essa fondare sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto” (Cass. 10688/2021; Cass. 9065/2021).
Pertanto, nel caso sottoposto all’esame di codesta Corte l’amministrazione finanziaria non aveva facoltà di riqualificare l’atto.
4. – Né può dirsi che la riqualificazione sia diretta di per sé a far rilevare una forma di abuso del diritto o di elusione fiscale, ai sensi dell’art. 10-bis, legge n. 212 del 2000, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare. L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.
Pertanto, se una diversa lettura dell’art. 20, DPR. n. 131 del 1986, così come risulta autenticamente interpretato dal legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dell’art. 10 bis dello Statuto del Contribuente, stante l’espresso richiamo contenuto nell’art. 53 bis, d.p.r. n. 131 del 1986, si richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è detto (Cass. 10688/2021).
Ne consegue in accoglimento del terzo e quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri, la cassazione della sentenza impugnata e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto può decidersi nel merito, accogliendo l’originario ricorso del contribuente.
Le spese del complessivo giudizio possono essere compensate, per la complessità della questione interpretativa trattata, e in ragione del recente consolidamento della giurisprudenza nei termini sopra precisati.
P.Q.M.
Accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso del contribuente. Compensa interamente le spese del doppio grado di merito e del giudizio di legittimità.
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