Corte di Cassazione ordinanza n. 20945 del 30 giugno 2022
revocazione
FATTI DI CAUSA
1. La J.C.ed (J.U.) ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza 329/10/13, depositata il 16 maggio 2013 dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione staccata di Pescara, con la quale era confermato il diniego di rimborso del credito d’imposta, richiesto in relazione ai dividendi percepiti dalla società partecipata italiana J.C., ai sensi dell’art. 10, paragrafo 4, lett. b), della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia ed il Regno Unito il 21 ottobre 1988. Ha rappresentato che, deliberata nel 2003 la distribuzione degli utili accantonati dalla controllata J.C., questa non applicò alcuna ritenuta alla fonte, conformemente a quanto previsto dall’art. 27- bis, d.P.R. 29/09/1973, n. 600, norma introdotta in attuazione della Direttiva n. 90/435/CEE (cd. direttiva Madre-Figlia). Ricevuti gli utili, la J.U. richiese il rimborso del 50 per cento del credito d’imposta ad essi relativo, ai sensi del citato art. 10 della Convenzione, rinunciando all’esenzione alla tassazione in Italia secondo la predetta direttiva.
In particolare, con istanze del 1° luglio 2003 e del 13 gennaio 2004 chiese al Centro Operativo di Pescara il rimborso del credito d’imposta. Dopo quattro anni, l’Ufficio interpellato emise il provvedimento di diniego di rimborso, accertando inoltre la debenza delle ritenute non effettuate dalla J.C. al momento del pagamento dei dividendi.
Nel contenzioso seguitone la Commissione tributaria provinciale di Pescara rigettò il ricorso dell’Ente con sentenza n. 264/01/2011, mentre la Commissione tributaria regionale accolse l’appello della società con riguardo all’accertamento delle ritenute non effettuate, confermando invece la decisione di primo grado relativa al diniego del rimborso.
In sintesi, i giudici d’appello negarono il diritto al rimborso del credito d’imposta perché affermarono, in diritto, che la disciplina convenzionale muove <<dall’intento di eliminare le doppie imposizioni, ragion per cui trovi applicazione solo in presenza di una doppia imposizione>>; <<la previsione di una esenzione degli utili dalla imposizione nello Stato di destinazione, attuata direttamente o mediante la previsione di un credito di imposta interno, evita il problema della doppia imposizione e rende pertanto inoperanti le norme convenzionali>>; ed accertarono che <<dall’esame della dichiarazione dei redditi … si evince come, mediante il riconoscimento del credito d’imposta interno al sistema fiscale inglese (double taxation relief) i dividendi distribuiti dalla controllata J.C. non siano stati affatto assoggettati ad imposizione>>.
Inoltre, affermarono che la stessa contribuente aveva dichiarato che non fosse stata applicata alcuna ritenuta ai sensi dell’art. 27-bis, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973. Da ciò discendeva l’impossibilità di fruizione di un doppio beneficio, quello previsto dalla Direttiva Madre-Figlia e quello regolato dalla Convenzione Italia-Regno Unito
2. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32556 emessa in data 30 aprile 2019 e depositata in data 12 dicembre 2019, rigettò il ricorso; in particolare evidenziò che il credito potesse riconoscersi solo in caso di effettiva duplicazione di imposta laddove la ricorrente sosteneva che per l’applicazione della Convenzione non si rendesse necessario che nel paese di residenza il beneficiario fosse sottoposto effettivamente al pagamento dell’imposta, essendo sufficiente che fosse assoggettato a tassazione.
3. J.C. impugna per revocazione l’ordinanza di questa Corte.
Si è costituita Agenzia delle entrate, con controricorso.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte. La ricorrente ha depositato memoria.
5. La causa è stata discussa oralmente all’udienza pubblica del 22 aprile 2022.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La controversia decisa dalla Suprema Corte con l’ordinanza impugnata per revocazione nel presente giudizio ha ad oggetto il diniego di rimborso del credito di imposta reclamato dalla società ricorrente, in relazione agli utili riversati dalla società figlia italiana, in forza dell’art. 10, paragrafo 4, lett. b) della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e il Regno Unito il 21 ottobre 1998.
L’impugnazione odierna assume un <<errore sul fatto>>, relativo alla presenza di uno dei presupposti dell’invocato rimborso, ovvero la circostanza che la società madre, odierna ricorrente, fosse soggetta ad imposta nel Regno Unito e che si fosse quindi verificata una effettiva doppia imposizione sugli utili realizzati da J.C. e distribuiti a J.U.; la doppia imposizione sarebbe stata erroneamente negata dall’ordinanza, non tenendo conto del fatto che l’operare del meccanismo dell’<<underlying tax credit>> (la normativa fiscale britannica riconosce un credito di imposta interno), se ha escluso un effettivo versamento di imposte in quello Stato, non ha affatto eliminato la doppia tassazione dei dividendi di fonte italiana. La sussistenza in fatto della doppia imposizione, negata dalla Corte, sarebbe incontrovertibilmente risultante dagli atti e provata in particolare da un dettagliato parere della divisione fiscale britannica di KPMG che, nel commentare il meccanismo dell’underlying tax credit, illustra le ragioni per cui neppure il riconoscimento combinato di quest’ultimo e del credito di imposta convenzionale di cui al citato art. 10 sia sufficiente a rimuovere la doppia imposizione.
2. L’art. 391-bis proc. civ. stabilisce che «Se la sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta […] da errore di fatto ai sensi dell’articolo 395, numero 4), la parte interessata può chiederne […] la revocazione». Quest’ultima disposizione prescrive che «Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione […] se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa» e precisa che «Vi é questo errore quando la decisione é fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando é supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».
2.1 La giurisprudenza di legittimità ha perimetrato l’errore di fatto tracciandone, in primo luogo, il confine rispetto alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziali o processuali, laddove l’errore di fatto riguarda solo l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, non potendosi far rientrare nella previsione il vizio che, nascendo ad esempio da una falsa percezione di norme che contempli la rilevanza giuridica di questi stessi fatti e integri gli estremi dell’error iuris, sia che attenga ad obliterazione delle norme medesime, riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione, sia che si concreti nella distorsione della loro effettiva portata, riconducibile all’ipotesi della violazione.
Resta, quindi, esclusa dall’area del vizio revocatorio la sindacabilità di errori formatisi sulla base di una pretesa errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perché siffatto tipo di errore, se fondato, costituirebbe un errore di giudizio, e non un errore di fatto (Cass., Sez. U., 27/12/2017, n. 30994; Cass., Sez. U., 11/04/2018, n. 8984; Cass. 14/04/2017, n. 9673, § 4-5). In sintesi, la combinazione dell’art. 391-bis e dell’art. 395 n. 4) non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto sostanziale o processuale e l’errore di giudizio o di valutazione.
2.2 L’errore di fatto previsto dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., poi, deve consistere, al pari dell’errore revocatorio imputabile al giudice di merito, nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata in base al tenore degli atti o dei documenti di causa; deve essere decisivo, nel senso che deve esistere un necessario nesso di causalità tra l’erronea supposizione e la decisione resa; deve presentare i caratteri della evidenza ed obiettività; infine, non deve cadere su un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata (Cass. 28/02/2007, 4640; Cass. 20/02/2006, n. 3652; Cass. 11/04/2001, n. 5369).
In particolare, il punto si può dire controverso quando sia, appunto, oggetto di controversia, ossia incerto e per questo dibattuto. È la contestazione di un fatto a renderlo incerto e a farlo divenire giustiziabile; il che comporta l’assoggettamento di esso al dibattito del processo. Per sciogliere l’incertezza che deriva dalla contestazione proposta da una delle parti, il giudice deve quindi valutare la contestazione stessa stabilendo se essa sia fondata, o no. Perciò se vi è valutazione del contrasto tra le parti, non può esservi alcuna svista percettiva.
2.3 Occorre ancora evidenziare che, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, e che non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendone gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione (Cass. 16/09/2011, n. 18897).
Inoltre, quanto all’effettività della tutela giudiziaria, anche la Corte di giustizia dell’UE riconosce la necessità che le decisioni giurisdizionali, divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili (o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi), non possano più essere rimesse in discussione e ciò al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia l’ordinata amministrazione della giustizia (Cass., Sez. U., 28/05/2013, n. 13181; cfr. Corte giust., 03/09/2009, in causa C- 2/08, Olimpiclub; Corte giust., 30/09/2003, in causa C-224/01, Kobler; Corte giust., 16/03/2006, in causa C-234/04, Kapferer).
Gli approdi nomofilattici sopra ricostruiti trovano riscontro univoco nella giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 17 del 1986, Corte Cost. n. 36 del 1991, Corte Cost. n. 207 del 2009), laddove essa segue il percorso evolutivo del contenimento del rimedio revocatorio per le decisioni di legittimità ai soli casi di «sviste» o di «puri equivoci» e nega rilievo a pretesi errori di valutazione, così recependo il ristretto ambito dell’errore di fatto previsto dell’art. 395, n. 4), cod. proc. civ.
Infine, coerentemente con tale quadro, Cass. 28/05/2013, n. 13181 ha anche evidenziato che la violazione del diritto UE non è causa di revocazione.
2.4 Dunque l’interpretazione non solo letterale e sistematica, ma pure costituzionalmente e convenzionalmente orientata, degli artt. 391-bis e 395 4) porta a non ammettere la revocazione delle decisioni di legittimità della Corte di cassazione per pretesi errori giuridici (sostanziali o processuali) oppure circostanziali, diversi dalla mera svista su fatti non resi oggetto di controversia, rispondendo la «non ulteriore impugnabilità in generale» all’esigenza, tutelata come primaria dalle stesse norme della Carta fondamentale della CEDU, di conseguire l’immutabilità e definitività della pronuncia all’esito di un sistema variamente strutturato (Cass. 29/04/2016, n. 8472).
Il carattere d’impugnazione eccezionale della revocazione, prevista per i soli motivi tassativamente indicati dalla legge, comporta l’inammissibilità di ogni censura non compresa nel novero di quelle indicate (Cass. 07/05/2014, n. 9865).
3. Alla luce di tali considerazioni, non può che giungersi alla valutazione di inammissibilità del ricorso.
3.1 La ricorrente deduce, in sintesi, che l’errore della Corte (definito <<sul fatto>>) abbia ad oggetto la negazione di un fatto (la doppia imposizione) la cui presenza sarebbe incontrovertibilmente provata dagli atti di causa e in particolare dalla perizia di una società di consulenza.
Sia nel ricorso che nella memoria la ricorrente evidenzia la natura di quaestio facti dell’accertamento della presenza di una doppia imposizione economica e dell’inidoneità del meccanismo fiscale dell’underlying credit tax ad evitarla e a scongiurarne il rischio, ciò anche alla luce di diversi arresti di questa Corte, relativi a questione analoga a quella oggetto del giudizio conclusosi con l’ordinanza impugnata, ma successivi ad esso ed indicativi di un’evoluzione del percorso giurisprudenziale sul punto (determinato anche dall’intervento di Corte di Giustizia, 19 dicembre 2019 in causa C-389/18, decisione peraltro depositata dopo la deliberazione e la pubblicazione dell’ordinanza impugnata).
Già tale prospettazione rende evidentemente inammissibile l’istanza di revocazione; appare evidente che il <<fatto>>, la cui valutazione è stata rimessa in talune decisioni di questa Corte alla verifica del giudice di merito, è richiamato in relazione al rapporto con il <<diritto>>, nella dialettica tra giurisdizione di merito e di legittimità, alla quale ultima però l’accertamento del fatto, come inteso dalla ricorrente, è del tutto estraneo.
In altri termini, a seguire la tesi della ricorrente l’errato accertamento del fatto, in funzione revocatoria, è attribuibile alla decisione della Commissione tributaria regionale, come del resto esplicitato dalla memoria (pagina 9 e ss.) ove, infatti, l’errore viene attribuito <<anche>> alla medesima. E’ la stessa ricorrente a riportare il passaggio motivazionale della C.T.R. laddove essa afferma <<nel caso di specie, dall’esame della dichiarazione dei redditi presentata dall’odierno appellante nel Regno Unito, si evince come mediante il riconoscimento di un credito di imposta interno (double taxation relief) i dividendi distribuiti dalla controllata J.C. non siano stati affatto assoggettati ad imposizione>>.
Ciò è del resto confermato dalla circostanza che il ricorso che ha dato luogo all’ordinanza di cui si chiede la revocazione era fondato esclusivamente su vizi di violazione e falsa applicazione di legge, attribuiti alla C.T.R., e non sull’errato o omesso apprezzamento di circostanze di fatto (in particolare il primo motivo, relativo alla violazione o falsa applicazione della disciplina convenzionale, era inteso a contrastarne l’errata interpretazione secondo la quale la soggezione a tassazione nel Regno Unito dovesse intendersi come effettivo esborso fiscale).
Ed infatti l’ordinanza impugnata ha:
- individuato la ratio iuris applicata dalla C.T.R., secondo cui il credito di imposta riconosciuto alla società in base alla Convenzione sussiste solo in caso di effettiva duplicazione di imposta;
- individuato la tesi difensiva secondo cui i dividendi erano stati assoggettati a tassazione nel Regno Unito e che il riconoscimento del credito di imposta non richiedeva un effettivo versamento di imposte (primo capoverso pagina 4: <<non avrebbe rilevanza alcuna la circostanza che la normativa fiscale del Regno Unito, riconoscendo un credito di imposta interno, avrebbe in concreto escluso un effettivo versamento di imposta in quello Stato>>, con la precisazione che sul punto la Corte riferisce della tesi della ricorrente);
- ritenuto che <<a radicare il diritto al credito di imposta non può bastare, nei rapporti transfrontalieri tra società madre e società figlia, la mera astratta soggezione della prima all’imposizione sui redditi di impresa nel Regno Unito, occorrendo la prova che i dividendi percepiti dalla società distributrice italiana siano stati concretamente sottoposti a tassazione in tale Paese. La ratio della Convenzione tra i due Stati non è – per vero – quella di creare un’esenzione a favore della società inglese percettrice di dividendi, ma solo quella di non discriminarla rispetto ai percettori italiani di tali dividendi; il che – com’è ovvio – presuppone che essa sconti, al pari di questi ultimi – la doppia imposizione degli utili, già a carico della società erogante, sia in capo socio che li percepisce>>.
3.2 Nel caso di specie, la ricorrente, in sintesi, mediante la deduzione di un errore sul fatto della insussistenza di una doppia imposizione, mira ad una diversa ricostruzione del fatto storico come operata dai giudici di merito e non messa in discussione nel giudizio di legittimità.
3.3 Inoltre, appare evidente che l’affermata incontrovertibile esistenza di una doppia imposizione non è un <<fatto la cui verità risulti invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata in base al tenore degli atti o dei documenti di causa>>, posto che essa è rimessa alla valutazione di una perizia di una società di consulenza, che ha per sua natura valenza di tesi difensiva e che comunque evidenzia la natura probatoria (e quindi tipicamente di merito) della questione rimessa alla Corte in questa sede.
3.4 Infine, occorre evidenziare che, soprattutto in memoria, la ricorrente evidenzia diversi recenti arresti di questa Corte, in fattispecie similari, ove è stato rimesso alla C.T.R. di valutare se per l’effetto del sistema dell’underlying tax credit la società avesse assicurato un trattamento deteriore o un beneficio ulteriore rispetto alla tassazione dei dividendi percepiti dalla società figlia italiana.
Anche ciò porta a ritenere che quello denunciato dalla ricorrente è in realtà un conflitto interpretativo, oggetto di un’evoluzione e che si articola tra violazione di norme di diritto sostanziali e vizio di giustificazione della decisione di merito, ma che evidentemente esorbita dallo stretto perimetro del rimedio revocatorio, nei termini sopra circoscritti.
4. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, spese che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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