La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 5996 depositata il 6 marzo 2024, intervenendo in tema di accertamento di abuso del diritto, ha statuito il seguente principio di diritto secondo cui “… in materia tributaria, l’art. 10-bis, comma 6, della legge n. 212 del 2000, a prescindere dalle modalità dell’accertamento (che può avvenire anche «a tavolino>>), esige sempre, a pena di nullità, una previa richiesta di chiarimenti al contribuente, il cui coinvolgimento è necessario, in un’ottica di collaborazione e buona fede, in quanto è l’unico in grado di spiegare eventuali ragioni extra-fiscali non immediatamente percepibili da parte dell’Amministrazione: ciò è confermato dalla necessità, in base al successivo comma 8, che la motivazione dell’avviso impositivo contenga uno specifico riferimento ai chiarimenti forniti dal contribuente. …”
La vicenda ha riguardato una società a responsabilità limitata a cui l’Agenzia delle Entrate, previa individuazione della dissimulazione di un contratto verbale di cessione di azienda nella sequenza di atti societari realizzati, ha applicato l’imposta di registro con aliquota al 3% e la sanzione per omessa registrazione. La società contribuente impugnava l’atto impositivo. I giudici di prime cure cure rigettarono le doglianze della contribuente. Avverso la decisione di primo grado la società propose appello. I giudici di appello confermarono la sentenza impugnata in quanto a norma dell’art. 15 d.P.R. n. 131 del 1986 l’Ufficio impositore può presumere l’esistenza di un contratto verbale di cui deve essere effettuata la registrazione d’ufficio. Devono sussistere elementi gravi, precisi e concordanti e gli atti, conclusi in un lasso di tempo così breve da società già connesse per rapporti esistenti, come risultano chiaramente dalla lettura degli atti medesimi, danno ampia ragione all’Ufficio di presumere l’esistenza, a monte, di un preciso disegno volto all’elusione fiscale. La società contribuente impugnava la sentenza di appello con ricorso in cassazione fondato su cinque motivi.
I giudici di legittimità accolgono il primo ed il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri.
I giudici di piazza Cavour hanno evidenziato che “… l’art. 15, lett c, del d.P.R. n. 131 del 1986 è stato erroneamente applicato, in quanto le parti coinvolte non hanno concluso una cessione di azienda (sia pure verbale), ma piuttosto sono ricorse ad una sequenza negoziale diversa dalla cessione di azienda (…), proprio per realizzare effetti economici e giuridici analoghi a quelli della cessione di azienda, come risulta dall’accertamento di fatto contenuto in sentenza, dove vi è, peraltro, un chiaro riferimento ad un «disegno volto alla elusione fiscale». In tali ipotesi l’Amministrazione finanziaria deve necessariamente usare l’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 (ratione temporis applicabile all’avviso in esame), che consente di disconoscere i vantaggi fiscali indebiti derivanti da una o più operazioni abusive, in quanto prive di sostanza economica e poste in essere solo per conseguire l’indebito vantaggio fiscale, e conseguentemente di terminare i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni, fermo restando, però, la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale. …”
Per gli Ermellini ha errato, prima l’Agenzia delle Entrate e poi i giudici di merito, in quanto in applicazione del principio di diritto: in tema di imposta di registro, l’Amministrazione finanziaria può applicare l’art. 15, lett c, del d.P.R. n. 131 del 1986 solo per accertare la conclusione di un contratto verbale che non è stato oggetto di registrazione, ma non anche per contestare gli atti o negozi che sono stati regolarmente sottoposti a registrazione, attribuendovi un diverso significato o negandone la sostanza economica, dovendo, in tali diverse ipotesi, procedere o ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 de 1986, fermo il divieto di usare elementi extra-testuali, o in base all’art. 1O-bis della legge n. 212 del 2000.
Per cui per il Supremo consesso “… l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 10-bis della l. n. 212 del 2000, anche il primo motivo è fondato, in quanto il comma 6 dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 esige sempre, a pena di nullità, una previa richiesta di chiarimenti al contribuente, a prescindere dalle modalità dell’accertamento (che può avvenire anche «a tavolino»), come confermato dalla necessità, in base al successivo comma 8, che la motivazione dell’avviso impositivo contenga uno specifico riferimento ai chiarimenti forniti dal contribuente, a cui deve essere data la possibilità di spiegare le ragioni extra-fiscali delle operazioni posti in essere.
Del resto, analogamente a quanto ritenuto per il termine di cui all’art. 12 della legge n. 212 del 2000, il termine dilatorio di cui all’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva, sicché la sua mancata attribuzione determina di per sé l’illegittimità dell’atto impositivo …”
In particolare i giudici di legittimità hanno ritenuto, come già chiarito dalla Corte, che in tema di contraddittorio procedimentale, il mancato rispetto da parte dell’Amministrazione finanziaria del termine di 60 giorni concesso al contribuente ex art. 37 bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, per presentare chiarimenti, determina la nullità dell’avviso di accertamento emesso anteriormente alla sua scadenza, traducendosi in una violazione del diritto di difesa, non emendabile attraverso la “prova di resistenza”, fondata sulla mancata dimostrazione in concreto dell’effettivo pregiudizio per il destinatario, attesa l’inapplicabilità dell’art. 21 octies, comma 2, della legge n.241 del 1990 agli atti impositivi, che non sono vincolati nel “quid” (Cass., Sez. 5, 11 novembre 2015, n. 23050).
In conclusione per la Suprema Corte l’Amministrazione finanziaria, non può procedere neppure all’accertamento a tavolino, senza richiesta di chiarimenti al contribuente, pena la nullità dell’atto.
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