CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 gennaio 2014, n. 301
Lavoro subordinato – Licenziamento – Reintegra – Articolo 18 statuto dei lavoratori riformato dalla legge cd. “Fornero” – Retroattività
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con sentenza emessa il 2.12.11 e depositata il 21.5.12, in riforma di quella n. 5303/09 emessa dal Tribunale della stessa sede, annullava il licenziamento intimato il 30.7.07 a S.F. da A.S.I. S.p.A., condannando quest’ultima al pagamento a titolo risarcitorio dell”ammontare delle retribuzioni – sulla base di una retribuzione mensile pari a € 9.261,78 – maturate da tale licenziamento al secondo recesso poi intimato dalla società, oltre alla regolarizzazione contributiva per lo stesso periodo.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre A.S.I. S.p.A. affidandosi a quattro motivi.
S.F. resiste con controricorso e a sua volta spiega ricorso incidentale basato su un solo motivo.
Motivi della decisione
1- Preliminarmente ex art. 335 c.p.c. si riuniscono i due ricorsi in quanto aventi ad oggetto la medesima sentenza.
2- Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale, considerando generica la contestazione sul punto svolta dalla società, accolto la domanda di risarcimento danni sulla base di una retribuzione mensile indicata – ma non provata – dal F. in € 9.261,78 e nonostante che la stessa busta paga prodotta dal lavoratore recasse una retribuzione mensile pari ad € 5.934,33. In tal modo – prosegue la società ricorrente – la sentenza impugnata ha addossato al convenuto l’onere di dimostrare l’infondatezza della domanda dell’attore. Per altro – conclude il motivo – che l’importo mensile della retribuzione del F. fosse di € 5.934,33 e non di € 9.261,78 è circostanza acclarata in altra sentenza del Tribunale di Milano, che ha rigettato la domanda de! lavoratore intesa ad ottenere il pagamento di differenze retributive e benché tale sentenza sia stata appellata, essa fa stato tra le parti o almeno giustifica la sospensione del presente processo in attesa del passaggio in giudicato.
Analoga doglianza viene sostanzialmente fatta valere con il secondo motivo (sotto forma di vizio di motivazione e violazione dell’art. 112 c.p.c.) e con il terzo motivo (ancora sotto forma di vizio di motivazione e violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., considerato che in appello il F. non aveva reiterato ed argomentato la domanda risarcitoria concernente detta quantificazione).
Con il quarto motivo (sebbene non numerato come tale) la ricorrente principale chiede comunque la cassazione della sentenza impugnata anche in ragione dello ius superveniens costituito dal nuovo testo dell’art. 18 legge n. 300/70, come modificato dall’art. 1 co. 42° legge n. 92/2012, nuovo testo entrato in vigore il 18.7.12 e che per licenziamenti come quello in discorso (annullato per violazione del cd. repechage) prevede non più la tutela reintegratoria, ma una mera tutela indennitaria. Sostiene la società ricorrente che si tratta di normativa applicabile anche a licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore della novella, giacché la citata legge n. 92/2012, mentre dispone che le modifiche processuali abbiano effetto solo per i licenziamenti successivi all’entrata in vigore della legge stessa, non opera analogo rinvio quanto agli effetti sostanziali d’un licenziamento illegittimo.
3- I primi tre motivi del ricorso principale – da esaminarsi congiuntamente perché connessi – sono infondati.
La prima censura contenuta nel ricorso principale sembra sovrapporre onere di contestazione e onere probatorio, trascurando che il secondo sorge solo se e nella misura in cui si sia in presenza di fatti specificamente contestati: si veda in proposito l’art. 115 co. 1° c.p.c., nel testo risultante dalla novella di cui all’art. 45 legge n. 69/09, che ha esteso anche al rito ordinario quel principio di non contestazione che – per antica e consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr., ex aliis, Cass. 13.3.12 n. 3974; Cass. 3.7.08 n. 18202; Cass. 27.2.08 n. 5191; Cass. 16.12.05 n. 27833; Cass. 19.1.05 n. 996; Cass. 6.7.04 n. 12345; Cass.5.3.4 n. 4556; Cass. 21.10.03 n. 15746; Cass. 15.1.03 n. 535; Cass. S.U. 23.1.02 n.761) – governa il rito speciale, alla stregua del disposto dell’art. 416 c.p.c., che impone al convenuto, a pena di decadenza, l’onere di prendere immediata e precisa posizione in ordine ai fatti primari asseriti dall’attore a sostegno della propria domanda.
Per l’effetto, nel rito speciale – e, per i giudizi instaurati dopo il 4.7.09, anche in quello ordinario a seguito della novella dell’art. 115 c.p.c. operata con legge n. 69/09 – vige il principio per cui la mancata specifica contestazione dei fatti costitutivi della domanda vincola il giudice a ritenere sussistenti i fatti stessi, salvo che (ma non è questo il caso) il giudice positivamente accerti d’ufficio l’esistenza o l’inesistenza di fatti non contestati che emerga dalle risultanze probatorie già ritualmente e tempestivamente acquisite (cfr, Cass. 4.4.12 n. 5363; Cass. 10.7.09 n.16201).
Ora, l’impugnata sentenza ha dato atto che Stefano F. ha indicato in € 9.261,78 la propria retribuzione mensile e che tale ammontare è stato solo genericamente contestato dalla società.
Dunque, a fronte di un fatto primario solo genericamente contestato, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del summenzionato principio di non contestazione.
È pur vero che le S.U. di questa S.C., con sentenza 22.5.12 n. 8077, hanno statuito che, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda.
Tuttavia ciò è consentito – prosegue la citata sentenza n. 8077/12 – purché la censura sia stata proposta conformemente alle regole fissate a riguardo dal codice di rito e oggi, quindi, conformemente alle prescrizioni dettate dagli artt. 366 co. 1° n, 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.
Nel caso in esame, invece, la A.S.I. non ha né trascritto il punto della propria memoria difensiva in cui contestava l’ammontare della retribuzione mensile indicato dall’attore (sicché il ricorso si palesa, a riguardo, non autosufficiente) né ha indicato gli atti e i documenti su cui si fonda il proprio ricorso, così contravvenendo al cit. art. 366 co. 1° n. 6 c.p.c.
Analogo difetto di autosufficienza e di rispetto dell’art. 366 co. 1° n. 6 c.p.c. si rinviene anche nella parte del primo motivo in cui si parla di altra sentenza resa inter partes dal Tribunale di Milano; a ciò è appena il caso di aggiungere che, trattandosi – a dire della stessa società ricorrente – di sentenza ancora sub indice, in nessun caso può fare stato tra le odierne parti; in proposito il ricorso sembra non distinguere fra la mera provvisoria esecutività della sentenza di primo grado e la sua efficacia dichiarativa, che ex art. 2909 c.c. consegue solo al giudicato.
La questione dei se la provvisoria esecutività possa riferirsi soltanto all’anticipazione dell’efficacia esecutiva della sentenza di condanna, rispetto al momento del suo passaggio in giudicato, od anche ad altri tipi di sentenza (v. in particolare le statuizioni inibitorie e quelle costitutive) è stata da tempo risolta in senso negativo dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr., e pluribus, Cass. 26.3.9 n. 7369; Cass. 12.7.2000 n. 9236; Cass. 6.2.99 n. 1037; Cass. 24.5.93 n. 5837): invero, affinché vi sia un’anticipazione dell’efficacia di accertamento e/o costitutiva della sentenza rispetto al momento della formazione del giudicato formale vi sarebbe bisogno d’una specifica previsione normativa (come, ad esempio, quella dell’art. 421 c.c.) che invece negli artt. 282 e 431 co. 1° c.p.c. manca del tutto.
Suffragano tale soluzione anche l’art. 447 bis – che si riferisce alla sola ipotesi di sentenza di condanna – e l’art. 283 c.p.c. (dettato per regolare la sospensione dell’esecuzione provvisoria generalizzata sancita, appunto, dall’art. 282 c.p.c.), che prevede che l’inibitoria attenga alla “efficacia esecutiva” della sentenza di primo grado.
In altre parole, l’anticipazione dell’efficacia della sentenza rispetto al suo passaggio in giudicato riguarda soltanto il momento dell’esecutività della pronuncia, con la conseguenza – attesa la necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione forzata – che la disciplina dell’esecuzione provvisoria ex art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione solo con riferimento alla pronuncia di condanna, poiché è l’unica che possa, per sua natura, integrare titolo esecutivo (il concetto stesso di esecuzione postula, infatti, un’esigenza di adeguamento della realtà al decisum che, evidentemente, manca nelle statuizioni di mero accertamento o costitutive).
In sintesi, deve ribadirsi che le statuizioni dichiarative o costitutive sono inidonee ad acquisire efficacia esecutiva prima del passaggio in cosa giudicata e deve escludersi in relazione ad esse che, prima della definizione della controversia con tale passaggio in giudicato, sussista un titolo suscettibile di provocare l’immutazione della situazione giuridica preesistente (cfr. Cass. 24.3.98 n. 3090).
Quanto alla ventilata sospensione del presente giudizio di legittimità in attesa della definizione di altro vertente fra le stesse parti, esso non può trovare accoglimento né ai sensi dell’art. 295 c.p.c. né ex art. 337 cpv. c.p.c.
Non è possibile la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c. perché la sospensione necessaria in esso prevista si limita ai casi di pregiudizialità tecnica e non meramente logica (giurisprudenza costante: cfr., da ultimo, Cass. 21.12.11 n.27932), cioè quando in un altro giudizio debba essere decisa una questione pregiudiziale intesa nel primo senso e che ricorre soltanto quando la preventiva definizione di una controversia (civile, penale o amministrativa) sia imposta da una espressa disposizione di legge, ovvero ne costituisca l’indispensabile antecedente logico-giuridico, il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato.
Infine, il rilevato difetto di autosufficienza in ordine al l’esatta portata della sentenza del Tribunale di Milano che avrebbe accertato un inferiore ammontare della retribuzione mensile del F. preclude – a monte – qualsiasi ipotesi di sospensione facoltativa ai sensi dell’art. 337 cpv. c.p.c.
Le considerazioni che precedono escludono che vi sia stata violazione alcuna degli artt. 112 e 115 c.p.c. o dell’art. 2697 c.c.
Del pari deve negarsi l’ipotizzata violazione dell’art. 346 c.p.c., poiché dalle conclusioni delle parti riportate nell’impugnata sentenza emerge che il F. ha specificamente coltivato in appello anche la domanda di condanna della A.S.I. al pagamento delle retribuzioni maturate a far data dal licenziamento “sulla base di una retribuzione globale di fatto pari ad € 9.261,78”.
In proposito va escluso che per coltivare una domanda ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 346 c.p.c. (e non incorrere, quindi, in una rinuncia ad essa, che ad ogni modo avrebbe valore meramente processuale e non anche sostanziale: cfr., ad esempio, Cass. 3.12.96 n. 10768) vi sia bisogno di formule sacramentali o di specifiche spiegazioni concernenti la quantificazione della domanda medesima, essendo sufficiente che, in qualsiasi forma idonea, emerga inequivocabilmente dal complesso dell’atto d’appello la volontà di riproporre la domanda (cfr. Cass.11.5.9 n. 10796).
Ed è sicuramente una forma idonea la riproposizione delle conclusioni già avanzate in prime cure e specificamente trascritte in appello anche con espresso riferimento al calcolo delle retribuzioni dovute a titolo risarcitorio sulla base mensile di € 9.261,78 (come avvenuto nel caso in discorso).
4- Anche il quarto motivo del ricorso principale è infondato.
La circostanza che il co. 67° dell’art. 1 cit. legge n. 92/2012 preveda l’applicabilità delle nuove norme processuali solo alle controversie instaurate dopo l’entrata in vigore della legge stessa non significa, a contrariis, che le nuove norme sostanziali in essa contenute siano applicabili ai licenziamenti anteriormente intimati, ma semplicemente che queste ultime seguono, in assenza di esplicita disposizione contraria, la regola dell’irretroattività sancita dall’art. 11 disp. prel. al c.c., regola cui – com’è noto – può derogarsi soltanto se ciò è espressamente previsto da apposita disposizione di diritto transitorio, che nel caso de quo manca.
In assenza di espressa disposizione derogatoria, il principio dell’irretroattività della legge previsto dall’art. 11 disp. prel. al c.c. fa sì che la nuova legge non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente e ancora in vita ove, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso; ed è appunto questa l’ipotesi del licenziamento già giudicato illegittimo.
Lo ius superveniens è, invece, applicabile ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr., da ultimo, Cass. 3.7.13 n. 16620; meno recentemente v, in senso conforme Cass. 3.3.2000 n. 2433 e, in epoca più remota, Cass. S.U, 12.12.67 n.2926).
5- Con un solo motivo il ricorso incidentale lamenta che l’impugnata sentenza, nel riconoscere al F. le retribuzioni maturate dal primo licenziamento fino al secondo licenziamento, intimato dalla A.S.I. in data 2.4.08, vale a dire dopo l’ordinanza ex art. 700 c.p.c. con cui il Tribunale aveva disposto in via d’urgenza e ante causam la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro, ha in sostanza revocato il provvedimento cautelare immotivatamente e in assenza di apposita domanda di revoca. Ritiene, infine, il ricorrente incidentale che il secondo licenziamento, intimato dopo una reintegra sostanzialmente simulata da parte aziendale, debba considerarsi inesistente per mancato adempimento dell’obbligo di reintegra a seguito dell’ordinanza ex art. 700 c.p.c. e comunque ingiustificato e lesivo dell’iter disciplinare di cui all’art. 7 Stat.
Il ricorso incidentale è inammissibile perché, in un unico e disomogeneo apparato argomentativo, svolge le proprie censure senza inquadrarle specificamente e distintamente sotto ipotesi di vizio di motivazione o di violazione di norme di diritto o di error in procedendo e senza nemmeno indicare analiticamente quali norme sarebbero state violate.
È pur vero che, secondo quanto statuito da Cass. S.U. 24.7.13 n. 17931, non è necessario che il ricorso per cassazione adotti formule sacramentali o provveda all’esatta indicazione numerica di una delle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c., ma è pur sempre necessario che esso venga articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata norma codicistica, cosa che il ricorso incidentale in esame non ha fatto.
Ad ogni modo – ciò sia detto per mera completezza espositiva – è appena il caso di notare che la censura oggetto del ricorso incidentale è comunque infondata: ai sensi del co. 3° dell’art. 669 novies c.p.c. il provvedimento cautelare perde efficacia quando la sentenza di merito, sebbene non ancora passata in giudicato, abbia dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso (ed anche nell’ipotesi inversa, sostituendosi la sentenza di merito al precedente titolo: cfr.Cass. 4.6.08 n. 14765).
Invero, i provvedimenti di urgenza hanno natura strumentale e funzione cautelativa del tutto provvisoria, in quanto volti ad evitare che la futura pronunzia del giudice possa restare pregiudicata nel tempo necessario per ottenerla e sono per loro stessa natura destinati a perdere ogni efficacia e vigore a seguito della decisione emessa nel successivo giudizio di merito, nella quale rimangono assorbiti e caducati, con l’esaurimento della funzione cautelare che li caratterizza (cfr. Cass.11.3.4 n. 4964).
Ciò non ha bisogno di motivazione ulteriore rispetto a quella già contenuta nella sentenza di merito che accerti o neghi il diritto a cautela del quale era stato concesso il provvedimento.
Del pari non è dovuta un’espressa confutazione degli argomenti a suo tempo accolti in sede di emissione della misura, atteso che il giudizio di merito non si pone come una sorta di fase impugnatoria di quello cautelare.
Da ultimo, la sorte del secondo licenziamento intimato a S.F. è questione che esula dalla presente controversia.
6- In conclusione, il ricorso principale è da rigettarsi, mentre quello incidentale è da dichiararsi inammissibile.
Ciò consiglia di compensare fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Compensa fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
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