COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Lazio sez. 5 sentenza n. 5563 depositata il 26 settembre 2017
Accertamento – Lista Falciani – Prove acquisite con il supporto delle autorità francesi – Utilizzabilità – Sussiste – Legittimità dell’accertamento – Consegue.
Massima:
È legittimamente acquisita, con il supporto delle autorità francesi, la “Lista Falciani” dalla quale è emerso che la ricorrente possedesse capitali e attività finanziarie all’estero presso la banca HSBC, i cui redditi non risultavano dichiarati in Italia, ed è altresì legittimo l’accertamento fondato su tale “Lista” anche ove i dati fossero stati illegalmente sottratti all’istituto di credito. (G.T..)
Testo:
La ricorrente B. G. si è opposta all’avviso di accertamento n TK3018304594/2013, notificato in data 7/1/2014, con il quale l’Agenzia delle Entrate contestava alla parte per l’anno 2006 una maggiore imposta IRPEF ( 1.563.794,00), addizionali comunali e regionali, nonché imposta sostitutiva, sanzioni ed interessi. L’atto impositivo è stato emesso sulla base di indagini della G. di Finanza in riferimento ai capitali e alle attività detenute all’estero ed hanno appurato come alla Sig. B. fossero riconducibili due conti detenuti presso la banca svizzera HHHH in cui nel primo emergeva la disponibilità, quale beneficiaria di attività finanziarie di vario tipo per il periodo 2005 e 2007 e per il secondo risultava essere titolare intestataria fino al 2005 ed in conseguenza per il suddetto periodo hanno ricostruito i redditi soggetti a tassazione e l’Ufficio, previo invito a comparire in cui la parte anche se aveva aderito allo scudo fiscale per l’anno 2002, ha dichiarato di non avere mai detenuto attività all’estero.
Nei motivi del ricorso ha eccepito le seguenti eccezioni :
inesistenza giuridica dell’atto impositivo impugnato per carenza di potere dirigenziale in capo al soggetto che ha sottoscritto l’atto;
intervenuta estinzione dell’azione accertatrice per decorso del termine di prescrizione del reato;
nullità dell’avviso di accertamento per violazione dell’art. 12, comma 7, della L.212/2000- violazione del diritto di difesa;
impossibilità di esercitare il diritto di difesa;
contraddittorietà della motivazione;
infondatezza nel merito delle riprese fiscali in contestazione.
L’ufficio con la costituzione in giudizio contestava tutti i motivi del ricorso formulati dalla parte e chiedeva la conferma dell’accertamento ritenendo fondate tutte le riprese erariali.
La Commissione Tributaria Provinciale adita con la sentenza n 3417/11/16 ha rigettato il ricorso della contribuente con condanna al pagamento delle spese di lite ed ha respinto tutte le eccezioni sollevate dalla parte ritenendo, in ultimo, che l’utilizzazione dei documenti provenienti dalla lista Falciani non ha determinato alcuna lesione dei diritti costituzionalmente garantiti.
L’ appellante ha impugnato la sentenza sulla base dei seguenti motivi :
travisamento di un punto deciso della controversia, motivazione apparente, violazione dell’art. 36, secondo comma n. 4 del D.lgs 546/92; errore di diritto e falsa applicazione dell’art. 43, comma 3, del dpr 600/73 e degli artt. 157 c.p. e 331 cpc, mancato coordinamento con l’art. 2, comma 3, del D.Lgs 127/2015, motivazione apparente in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale 247/2011 e omesso esercizio delle funzioni di controllo demandate al giudice tributario, violazione dell’art. 11 del cpc, eccesso di potere;
violazione dell’art. 24, secondo comma della costituzione sul diritto di difesa, travisamento delle censure sollevate in primo grado ed errata applicazione dell’art. 12, comma 7, dello statuto del contribuente;
violazione dell’art. 56 del D.Lgs 546/92 e dell’art. 11 cpc, omesso esame e pronuncia su punti decisivi della controversia, travisamento dei fatti e falsa rappresentazione degli stessi, conseguente mancata motivazione;
violazione del principio comunitario del ne bis in idem, con possibile rinvio alla Corte Costituzionale.
L’ufficio replica a tutte le eccezioni e rilievi e insiste sul fatto che la Lista è stata legittimamente acquisita dalle autorità italiane ed i dati e gli elementi in essa contenuti possono essere utilizzati per l’emanazione degli atti e nel merito ritiene fondati tutti gli elementi posti a base dell’accertamento.
Replica con memorie la ricorrente ed allega sentenza emessa dalla CTR relativa all’anno 2005.
La vertenza è venuta in decisione in data 8 Maggio 2017, previa discussione in pubblica udienza.
Questa Commissione ritiene che l’appello proposto dalla contribuente vada respinto, in considerazione della infondatezza delle argomentazioni esposte.
Deve osservarsi, in primis, che la sentenza pronunciata dalla Commissione Provinciale sia adeguatamente motivata, del tutto aderente alle risultanze processuali e in linea con la normativa che regola la materia, di guisa non merita alcuna critica o censura. Il giudice del ricorso ha esaurientemente esaminato le eccezioni del contribuente, disattendendole, però, in presenza di puntuali e precisi elementi di prova forniti dall’Ufficio ed in conseguenza ha replicato puntualmente a tutti i motivi del ricorso puntualizzando in particolare in ordine alla prospettazione riferita alla qualifica dirigenziale ed ha sottolineato che nella specie l’avviso di accertamento era stato sottoscritto dal Direttore Provinciale, ovvero dal soggetto espressamente preposto dal capo ufficio senza esercizio del potere di delega di firma ad altro impiegato della carriera direttiva. In questa fase del giudizio la parte non soddisfatta da quanto deciso dal primo giudice ripropone la richiesta di riconoscimento della nullità dell’avviso di accertamento impugnato, così come ammesso dalla Corte di Cassazione rappresentando che l’Amministrazione non ha fornito la prova dell’esistenza di una delega rilasciata conformemente all’art. 42 del dpr 600/72 per assoluta indeterminatezza della posizione del soggetto che lo ha sottoscritto, non contestata in primo grado e, quindi, ritiene sul punto, la motivazione della sentenza meramente apparente.
Si osserva, al riguardo, che le riproposte eccezioni non hanno pregio e devono essere disattese e preme a questo collegio, in via esclusiva, fare alcune osservazioni sulla eccepita illegittimità della sottoscrizione dell’atto impugnato sulla quale il primo giudice ha dato ampio spazio ed il difensore del contribuente su questo rilievo ha svolto un nutrito ed ampio elaborato di argomentazioni ed osservazioni. Si osserva sul punto di dover premettere che nell’ordinamento tributario, la delega di firma trova fondamento normativo nell’art. 42 del dpr 600/73, il quale prevede che” gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”( comma 1) e che” l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione … di cui al presente articolo …” (comma 3). Diversa è la delega di funzioni che è prevista dall’art. 17, comma 1- bis, del D.Lgs 165/2001, il quale stabilisce che “i dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nella funzioni di cui alla lettera b,d ed e del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici affidati..”.
La differenza che passa tra la delega interorganica e la mera delega di firma è chiarita dalla Corte di Cassazione : quest’ultima “si ha quando un organo, pur mantenendo la piena titolarità circa l’esercizio di un determinato potere, delega ad altro organo, ma anche a funzionario non titolare di organo, il compito di firmare gli atti di esercizio del potere stesso. In questi casi, l’atto firmato dal delegato, pur essendo certamente frutto dell’attività decisionale di quest’ultimo, resta formalmente imputato all’organo delegante, senza nessuna alterazione dell’ordine delle competenze” ( Sent. 6882/2000; in tal senso anche Cassazione Sent. n 6113/2005).
In altri termini, la delega di firma, che risponde a essenziali esigenze di organizzazione dei pubblici uffici, consente al delegato di sottoscrivere l’atto ” per il delegante”, fermo restando che la paternità dell’atto sottoscritto rimane in capo a quest’ultimo. Precisa, infine, il Collegio che, come esattamente rilevato dall’ufficio, l’istituto della delega di firma nulla ha in comune con gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari, emanati sulla base della disposizione normativa dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n 37 del 17 Marzo 2015.
Nel caso in esame, sussiste una mera delega di firma, in quanto il responsabile di un’articolazione interna ha sottoscritto l’atto non in forza di incarico dirigenziale ricevuto, ma per effetto della delega di firma del direttore dell’ufficio. Il delegato appartiene alla terza area funzionale corrispondente alla ex ” carriera direttiva”, dopo il superamento delle qualifiche professionali e l’attribuzione alla contrattazione collettiva della specifica individuazione dei profili (che nel caso di specie ha riguardato il comparto “Agenzie fiscali” ). Peraltro, la stessa Corte Costituzionale, nella citata sentenza 37 del 2015, ha ritenuto che” le regole organizzative interne dell’Agenzia delle Entrate e la possibilità di ricorrere all’istituto di delega, anche a funzionari, per l’adozione di atti a competenza dirigenziale .. ” garantiscono la funzionalità dell’Agenzia a prescindere dalla disposizione censurata. Deve aggiungersi, che l’ordine di servizio emesso dal direttore non ha soltanto efficacia nell’organizzazione interna, ma ha valore di delega, ” derivando dal potere organizzativo ad esso proprio” e dunque ha rilevanza esterna, quando sia esplicita la volontà dirigenziale in tal senso” ( Cass. Sent. n 13512/2011).
Deve concludersi, pertanto, per la legittimità della sottoscrizione dell’atto impugnato. Come risulta dalla richiamata memoria dell’ufficio, l’avviso di accertamento è stato regolarmente sottoscritto dal capo ufficio controlli, sulla base dell’allegata delega di firma rilasciata dal direttore provinciale. In tal senso anche la recentissima giurisprudenza della Corte di Cassazione, Sez. V tributaria, che ha confermato la legittimità degli atti impositivi sottoscritti dal funzionario di terza area, su delega del capo dell’Ufficio ( sent. del 9.11.2015 nn 22800, 22803 e 22810).
Altra questione è la mancata allegazione della delega e la sua esibizione in giudizio. In conformità a consolidato orientamento giurisprudenziale, non è necessario che la delega sia allegata all’atto di accertamento al quale si riferisce, ma in caso di contestazione va esibita in giudizio dall’Amministrazione. L’ufficio ha, dunque, assolto all’onere probatorio a suo carico e, pertanto, l’eccezione formulata dalla parte contribuente va respinta anche sotto questo profilo.
In riferimento al secondo motivo di appello e con particolare riferimento al raddoppio dei termini di accertamento operato sulla scorta di una applicazione retroattiva della norma di cui all’art. 12, occorre rilevare che tale norma non ha apportato nessuna modifica alla natura sostanziale del rapporto tributario ed ha inciso esclusivamente sul metodo di acquisizione della prova quale questione procedurale. Va precisato sul punto che l’accertamento è stato emesso in conseguenza di maggiori redditi connessi agli attivi “black list” in applicazione della presunzione di evasione di imposta contenuta nell’art. 12, comma 2, del DL 78/2009 ancorché al recupero a tassazione riguardasse un periodo di imposta antecedente all’entrata in vigore della norma. Nel caso, l’atto fa riferimento alla predetta norma, ma assume a fondamento anche il D.L. 167 /1990 che permetteva all’Ufficio di accertare e perseguire i capitali all’estero e, quindi, ogni censura sul punto è da respingere. Nel caso, dunque, l’avviso di accertamento è riferito all’anno 2006 ed è stato notificato a Gennaio 2014 e, secondo la parte, l’Amministrazione sarebbe decaduta dai termini dell’accertamento, salvo che l’ufficio avesse dimostrato l’invio della notitia criminis conseguente applicazione dell’art. 43, terzo comma del D.Lgs 600/73. Come è noto infatti il pvc viene redatto a seguito dell’attività di controllo svolta dall’A. F. o dalla G Di Finanza in occasione della verifica fiscale ed in esso sono indicate le violazioni contestate ed i relativi addebiti. La comunicazione di reato, invece, rappresenta uno strumento previsto dal codice penale, avente il fine di porre l’A. G. nelle condizioni di assumere la direzione delle indagini. Orbene, l’art. 43, comma 3, DPR 600/73, in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 cpp per uno dei reati previsti dal Dlgs n 74/2000, è previsto il raddoppio dei termini per l’accertamento relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione. Ne discende, quindi, che l’attività di accertamento dell’Ufficio si può ritenere legittima dal momento che la normativa che dispone il raddoppio dei termini per la decadenza dell’azione di accertamento ai fini delle imposte sui redditi e IVA è stata recentemente dichiarata costituzionale a seguito della ordinanza di rimessione della CTP di Napoli , che aveva dubitato dell’incostituzionalità della norma introdotta dal DL 223/06. La Consulta sul punto ha osservato come non si tratta di una riapertura o proroga dei termini scaduti e né di “reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti”, ma di termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione ( obbligo di denunzia), senza che all’amministrazione sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. Nel caso, dunque, è configurabile l’ipotesi di reato prevista dall’art. 43, 3 comma e il richiamato disposto di archiviazione per l’intervenuta prescrizione evidenziata dalla parte appellante non esclude la sussistenza del reato in quanto nel caso la sentenza penale ha accertato solo la prescrizione.
Per quanto concerne la censura relativa all’anticipata emissione dell’atto impositivo impugnato in violazione del disposto dell’art. 12, comma 7 L. 212/2000 è opportuno richiamare la sentenza della Corte di Cassazione ( Sent. n 18184 del 29.07.2013) da cui emerge che” in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale, l’art. 12, comma 7, della L.212/2000 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’avviso di accertamento- termine decorrente dal rilascio al contribuente- nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, una ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del pv di chiusura delle operazioni- determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche operazioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus” poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della podestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto nei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza del requisito, la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio”. Nella presente controversia tale violazione non sussiste in quanto successivamente all’emissione e notifica del pv non vi è stata ulteriore attività istruttoria e, nel caso nemmeno prospettata, poiché gli esiti di eventuali ulteriori attività non sono trasfuse nell’atto impugnato.
In ordine all’ultimo motivo di impugnazione si deve rilevare prima di tutto la censurabilità della impugnazione in quanto i primi giudici hanno esaminato attentamente tutte le eccezioni ed osservazioni di controparte e sono giunti alla conclusione che le movimentazioni estere erano acconti della eredità in attesa della liquidazione. Comunque tale circostanza non provata, peraltro, dalla parte, ma, comunque, non ha alcun riferimento ai redditi non dichiarati in Italia. Sul punto è opportuno affermare che, come peraltro affermato dai primi giudici e su cui la parte non ha provato diversamente, la Lista Falciani è stata legittimamente acquisita dalle autorità italiane e che, d’altro canto, la ricorrente possedesse denaro all’estero è provato da una serie di circostanze quali l’azione giudiziaria circa il riconoscimento della cittadinanza italiana della genitrice della ricorrente. Del resto la Corte di Cassazione è concorde nel ritenere che è legittimo l’accertamento fondato solo sulla lista Falciani e ciò anche se i dati sono stati illegalmente sottratti e l’Amministrazione Finanziaria può avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario e nel caso non ha violato nessuna disposizione di legge ( Cass. N 17503/2016 l o Settembre). Emerge chiaramente da tale sentenza ( unitamente ad altre ) il principio secondo cui nella valutazione della rilevanza costituzionale degli interessi contrapposti, l’evasione fiscale costituisce un atto di particolare gravità da cui deriva la rottura del vincolo di lealtà minimale che lega fra loro i cittadini, comportando la lesione dei doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 53 della Costituzione, prevalente rispetto al diritto di riservatezza della corrispondenza e del domicilio, nonché della libertà di iniziativa economica e del risparmio, costituzionalmente protetti. Da ciò ne deriva l’utilizzabilità delle prove acquisite dall’ufficio con il supporto delle autorità francesi e sotto tale profilo la ricostruzione operata dall’Ufficio risulta attendibile e certa. Difatti l’Amministrazione finanziaria a cui la prevalente dottrina attribuisce l’onere probatorio, ha dimostrato completamente la fondatezza della pretesa avanzata attraverso una serie di riscontri oggettivi e con presunzioni discendenti da fatti circostanziati, gravi e concordanti e da cui si è potuto in modo incontestabile dedurre la pretesa impositiva. Sulla base delle evidenziate circostanze possiamo concludere nell’affermare che nel mentre alla A. F. compete l’onere probatorio, al contribuente ricorrente compete l’onere di difendersi, adducendo prove di egual valore ma di segno opposto a quelle dell’Ufficio e si ritiene che sia in primo grado che in questa fase di appello la parte non abbia prodotto alcuna prova contraria .
Conclusivamente si deve ritenere la riconducibilità all’indagata delle fisches non esistendo alcuna prova contraria ed in conseguenza l’affermazione dei primi giudici in cui evidenziano che” un conto era intestato direttamente alla ricorrente, mentre in quello intestato alla società è indicato con chiarezza che la persona fisica ( B.) che ne disponeva era la ricorrente è da ritenere valida e fondata a prescindere dalla intervenuta archiviazione dell’indagine penale che, come precisato dalla Cassazione, i due giudizi hanno un doppio binario e sono caratterizzati da completa autonomia.
Questa Commissione sciolta la riserva all’udienza del 19 Luglio 2017, respinge l’appello del contribuente e lo condanna al pagamento delle spese di giudizio nella misura indicata in dispositivo. Atteso quanto previsto dall’art. 13, comma 1 quater DPR 30 Maggio 2002 n 115, quale introdotto dall’art. 1 comma 17 legge 24 Dicembre 2002 n 228, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’appellante , dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta.
l) Respinge l’appello;
2) condanna l’appellante al rimborso, in favore dell’Agenzia, delle spese processuali del presente grado di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 10.000,00 oltre accessori:
3) da atto dei presupposti di cui all’art. 13 comma l quater primo periodo dpr 115/2002.
Così deciso in Roma il l9 Luglio 2017
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