CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 gennaio 2018, n. 1765
Differenze TFR – Incidenza sul medesimo dei compensi percepiti per premio di anzianità, festività coincidenti con la domenica, ferie e permessi non goduti – Precedente sentenza passata in giudicato – Creditore di una somma di denaro, dovuta in forza di “un unico rapporto obbligatorio” – Non consentito frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo – Scissione in contrasto con il principio di correttezza e buona fede, nonchè con il principio costituzionale del giusto processo – Eccezione – Pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso
MASSIMA
Costituisce principio generale la regola secondo la quale “la singola obbligazione” va adempiuta nella sua interezza ed in un’unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell’eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore
Svolgimento del processo
Con ricorso al giudice del lavoro di Torino, depositato il 17 dicembre 2009 e notificato il 5 gennaio 2010, M. A. chiedeva la condanna della ex datrice di lavoro C. S.p.a. (gruppo Fiat), con la quale il rapporto di lavoro subordinato era cessato il 30 agosto 2006, al pagamento della somma di euro 1302,83 a titolo di differenze sul t.f.r. già liquidatogli, per non essere stata considerata l’incidenza sul medesimo dei compensi a suo tempo percepiti per premio di anzianità, festività coincise con la domenica, ferie e permessi non goduti.
La società convenuta resisteva alle pretese avversarie, eccependo la sentenza passata in giudicato, intervenuta il 18 novembre 2008, avente ad oggetto la quantificazione del c.d. premio di fedeltà spettante alla fine del rapporto, di modo che le pretese creditorie di cui al successivo ricorso andavano azionate nel precedente giudizio. Eccepiva, altresì, la prescrizione del credito vantato dall’attore.
Con sentenza 11 febbraio 2010 il giudice adito dichiarava l’improponibilità della domanda, poiché i crediti fatti valere nelle due cause derivavano dalla cessazione del medesimo rapporto di lavoro, ragion per cui avrebbero potuto e dovuto essere azionati congiuntamente, alla luce della sentenza n. 23726/2007 delle Sezioni Unite civili di questa Corte. Il ricorrente aveva invece indebitamente frazionato il credito in una pluralità di domande.
La Corte di Appello, mutando il proprio precedente orientamento in materia, accoglieva l’appello proposto dal lavoratore, e quindi la domanda, con la condanna della società al pagamento della somma di 1.288,93 euro, oltre accessori dal 31 agosto 2006, e spese. Respinta l’eccezione di prescrizione, tenuto conto che il diritto de quo poteva essere fatto valere dal momento in cui era cessato il rapporto, allorché era stato maturato il diritto al t.f.r., nella specie al 30 agosto 2006, sicché la prescrizione era stata tempestivamente interrotta con il deposito del ricorso introduttivo, avvenuto il 17 dicembre 2008, la Corte torinese osservava che il principio della infrazionabilità, ribadito anche da Cass. n. 26961/2009, 15476/2008, 28719/2008, opera all’interno di un rapporto obbligatorio ritenuto unico in senso proprio, mentre dal rapporto di lavoro discende una pluralità di obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, di natura legale oppure contrattuale, concernente istituti economici diversi. Il principio affermato dai richiamati precedenti di legittimità operava, invece, all’interno di ognuno di questi rapporti obbligatori (come nel caso della sentenza n. 28719/2008 relativamente al TFR), ma non riguardava il complesso di essi, perché non poteva affermarsi che alla cessazione del rapporto di lavoro si viene a costituire in capo al lavoratore un “unico credito” costituito dalla sommatoria delle voci economiche, retributive e/o risarcitorie, ancora da esso derivanti. Il divieto di frazionamento dell’azione non poteva, dunque, trovare applicazione quando le azioni erano diverse, perché erano diversi i titoli (causae petendi), i regimi e i presupposti, giuridici e di fatto.
Per la cessazione della suddetta decisione, notificata il 3 febbraio 2011, ha proposto ricorso la S.p.a. C. con atto di cui alla richiesta di notifica in data 29 marzo 2011, sulla base di un solo, articolato motivo. Ha resistito il M. con controricorso.
Memoria ex art. 378 cod. proc. civ. era depositata dalla sola ricorrente in vista della pubblica udienza fissata al 5 ottobre 2016, all’esito della quale con apposita ordinanza la causa veniva rinviata a nuovo ruolo in attesa della pronuncia delle Sezioni unite civili di questa Corte, la cui udienza risultava fissata per il giorno 11 ottobre 2016.
Quindi, la pubblica udienza è stata di nuovo fissata al 20 settembre 2017, per la quale sono stati comunicati nuovi rituali avvisi.
Motivi della decisione
Con un solo motivo la società ricorrente, denunciando violazione di legge in relazione all’art. 2909 cod. civ. e all’art. 111 Cost., censura la sentenza per non avere debitamente considerato le implicazioni scaturenti dall’avere il lavoratore agito una prima volta con ricorso in data 1-10-08 per la rideterminazione del premio di fedeltà, in base a quanto percepito a titolo di compensi e maggiorazioni da lavoro straordinario e notturno nell’ultimo anno di lavoro, domanda quindi accolta con sentenza del 18 novembre 2008, e una seconda volta, in data 17-12-09, per rivendicare differenze relative al t.f.r., assumendo che nella liquidazione di detto trattamento non erano stati computati i compensi ricevuti per festività non fruite, nonché il compenso denominato indennità ferie non fruite percepito all’atto della cessazione del rapporto. Entrambe le domande trovavano titolo in fatti preesistenti alla cessazione del rapporto di lavoro e relativi al ricalcolo dei compensi di fine rapporto. Richiama i principi espressi dalle S.U. n. 23726 del 2007, evidenziando che le ipotesi normativamente previste di parcellizzazione della prestazione oggetto dell’unico credito rispondono sempre ad una ben individuabile ratio, corrispondente ad un interesse del creditore esteriormente riconoscibile e meritevole di tutela, situazione non ravvisabile nella specie. Il lavoratore aveva violato il principio, secondo cui è inibita la disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto, che, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve automaticamente anche in abuso dello stesso. Tanto premesso, il ricorso va respinto alla luce dei principi recentemente affermati, in un caso per molti versi analogo a quello oggetto di questo giudizio, dalle Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza in data 11.10.2016 – 06.02.2017 n. 4090/17, secondo cui le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo – sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c. [«…Risulta sottoposta allo scrutinio delle Sezioni unite la questione “se, una volta cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del suddetto rapporto o che trovano titolo nella cessazione del medesimo e se il frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con l’improponibilità della domanda”.
Con la sentenza n. 23726 del 2007 le Sezioni unite sono intervenute sulla questione e, mutando il precedente orientamento (sent. n. 108 del 2000), hanno affermato che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di “un unico rapporto obbligatorio”, frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo. Tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale aggravamento della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede sia con il principio costituzionale del giusto processo, in quanto la parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si traduce in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.
Più recentemente le Sezioni unite, con la sentenza n. 26961 del 2009 (pronunciata in tema di giurisdizione), riferendosi alle obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, hanno ribadito quanto affermato dalla sentenza n. 23726 del 2007, sostenendo che costituisce principio generale la regola secondo la quale “la singola obbligazione” va adempiuta nella sua interezza ed in un’unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell’eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore.
Come emerge con chiarezza dalla lettura delle sentenze suddette, quando le sezioni unite hanno discusso di (in)frazionabilità del credito si sono riferite sempre ad un singolo credito, non ad una pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso. Pertanto solo una interpretazione dell’espressione “unico rapporto obbligatorio”, avulsa dal contesto nel quale essa è inserita, può indurre a ritenere che nella sentenza n. 23726 del 2007 il principio di infrazionabilità sia stato espressamente affermato non (soltanto) in relazione ad un singolo credito, bensì (anche) in relazione ad una pluralità di crediti riferibili ad un unico rapporto di durata.
Risulta inoltre evidente che l’infrazionabilità del singolo diritto di credito (decisamente condivisibile, nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell’oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l’estensione considerata dall’ordinamento) non comporta inevitabilmente (tanto meno implicitamente) la necessità di agire nel medesimo, unico processo per diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso tra le stesse parti. I rilievi che precedono non esimono tuttavia le Sezioni unite dal dare risposta al quesito sopra prospettato (se il lavoratore, una volta cessato il rapporto di lavoro, debba avanzare in un unico processo tutte le pretese creditorie maturate nel corso del medesimo rapporto -quindi, più in generale, se debbano essere richiesti nello stesso processo tutti i crediti concernenti un unico rapporto di durata- e se la proposizione delle domande relative in giudizi diversi comporti l’improponibilità di quelle successive alla prima).
Tale risposta non può che essere negativa con riguardo ad entrambi i profili considerati.
3. La tesi secondo la quale più crediti distinti, ma relativi ad un medesimo rapporto di durata, debbono essere necessariamente azionati tutti nello stesso processo non trova, infatti, conferma nella disciplina processuale, risultando piuttosto questa costruita intorno a una prospettiva affatto diversa.
Il sistema processuale risulta, invero, strutturato su di una ipotesi di proponibilità in tempi e processi diversi di domande intese al recupero di singoli crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso esistente tra le parti, come autorizza a ritenere la disciplina di cui agli artt. 31, 40 e 104 c.p.c. in tema di domande accessorie, connessione, proponibilità nel medesimo processo di più domande nei confronti della stessa parte. Ulteriori argomenti in tal senso possono trarsi dalla contemplata possibilità di condanna generica ovvero dalla prevista necessità, ex art. 34 c.p.c., di esplicita domanda di parte perché l’accertamento su questione pregiudiziale abbia efficacia di giudicato.
D’altro canto, l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in tema di estensione oggettiva del giudicato -in relazione alla preclusione per le questioni rilevabili o deducibili- perderebbe gran parte di significato se dovesse ritenersi improponibile qualunque azione per il recupero di un credito solo perché preceduta da altra, intesa al recupero di credito diverso e tuttavia riconducibile ad uno stesso rapporto di durata tra le medesime parti, a prescindere dal passaggio in giudicato della decisione sul primo credito o comunque dalla inscrivibilità della diversa pretesa creditoria successivamente azionata nel medesimo ambito oggettivo di un giudicato in fieri tra le stesse parti relativo al medesimo rapporto di durata.
La mancanza di una specifica norma che autorizzi a ritenere comminabile la grave sanzione della improponibilità della domanda per il creditore che abbia in precedenza agito per il recupero di diverso credito, sia pure riguardante lo stesso rapporto di durata, e, soprattutto, la presenza nell’ordinamento di numerose norme che autorizzano, invece, l’ipotesi contraria, rafforzano la fondatezza ermeneutica della soluzione.
Per altro verso, una generale previsione di improponibilità della domanda relativa ad un credito dopo la proposizione da parte dello stesso creditore di domanda riguardante altro e diverso credito, ancorché relativo ad un unico rapporto complesso, risulterebbe ingiustamente gravatoria della posizione del creditore, il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie derivanti da un medesimo rapporto in uno stesso processo (quindi in uno stesso momento, dinanzi al medesimo giudice e secondo la medesima disciplina processuale); con conseguente indebita sottrazione alla autonoma disciplina prevista per i diversi crediti vantati e perdita, ad esempio, della possibilità di agire in via monitoria per i crediti muniti di prova scritta o di agire dinanzi al giudice competente per valore per ciascuno dei crediti -quindi di fruire del più semplice e spedito iter processuale eventualmente previsto dinanzi a quel giudice-, e con possibile esposizione alla necessità di “scegliere” di proporre (o meno) una tempestiva insinuazione al passivo fallimentare, col rischio di improponibilità di successive insinuazioni tardive per altri crediti.
E’ infine il caso di evidenziare che l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia.
Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese (consulenza, assicurazione, locazione, finanziamento, leasing), l’idea che essi debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati -pena la perdita della possibilità di farli valere in giudizio- in un unico processo monstre (meno “spedito” dei processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un sistema inteso a garantire l’agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la circolazione del danaro e ad incentivare gli scambi e gli investimenti.
4. Le considerazioni che precedono non esauriscono l’analisi della problematica in esame.
… L’ordinamento guarda con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo “ambito” oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di “preclusione” dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall’esigenza di evitare, ove possibile, la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale.
Di tale esigenza si è espressamente fatta carico la giurisprudenza di queste Sezioni unite (v. in particolare, tra le altre, S. U. n. 12310 del 2015 in materia di modificabilità della domanda ex art. 183 c.p.c. e S.U. n. 26242 del 2014 in materia di patologia negoziale), nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda “esistenziale”, sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide negativamente sulla “giustizia” sostanziale della decisione „., sulla durata ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale) nonché, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione al rischio di giudicati contrastanti).
Si tratta di una giurisprudenza che afferma la necessità di favorire, ove possibile, una decisione intesa al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio, “evitando di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito”.
Nel solco dell’indirizzo tracciato dalle citate decisioni deve ritenersi che, se sono proponibili separatamente le domande relative a singoli crediti distinti, pur riferibili al medesimo rapporto di durata, le questioni relative a tali crediti che risultino inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato, così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili – nonché, in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo possono anch’esse ritenersi proponibili separatamente, ma solo se l’attore risulti in ciò “assistito” da un oggettivo interesse al frazionamento.
Quest’ultima affermazione impone un chiarimento.
.. Pertanto, se l’interesse ad agire esprime il rapporto di utilità tra la lesione lamentata e la specifica tutela richiesta, è da ritenersi, nell’ottica di un esercizio responsabile del diritto di azione, che tale rapporto abbia ad oggetto anche le caratteristiche della suddetta tutela (ivi comprese la relativa “estensione” e le connesse modalità di intervento rispetto ad una più ampia vicenda sostanziale), con la conseguenza che l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c. investe non solo la domanda ma anche, ove rilevante, la scelta delle relative “modalità” di proposizione.
… Quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo.
5. Sulla base delle considerazioni che precedono, va affermato il seguente principio di diritto: “Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. …”. Alla luce dei sopra esposti principi, e considerato che la domanda proposta dal lavoratore nel presente processo è intesa al ricalcolo del premio fedeltà con inclusione dello straordinario prestato a titolo continuativo, mentre la domanda precedentemente proposta (anch’essa dopo la cessazione del rapporto di lavoro) era intesa ad ottenere la rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune voci retributive percepite in via continuativa, il ricorso della società non risulta fondato. Deve infatti osservarsi che gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno diversa fonte (legale l’uno e pattizia l’altro), nonché differenti presupposti e finalità, non risultando, in particolare, che il credito azionato in relazione al premio fedeltà sia inscrivibile nel medesimo ambito oggettivo del giudicato ipotizzabile in relazione alla precedente domanda riguardante la rideterminazione del TFR, né che i due crediti siano fondati sul medesimo fatto costitutivo; onde è da ritenersi che ben poteva il lavoratore proporre le domande suddette in diversi processi, senza neppure la necessità di verificare la sussistenza di un interesse oggettivamente valutabile a tale separata proposizione»];
Pertanto, la sentenza qui impugnata appare pienamente conforme alla succitata giurisprudenza e quindi immune da errori di diritto, visto che a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, in data 31 agosto 2006, il dipendente agiva una prima volta soltanto per la rideterminazione del premio di fedeltà, avuto riguardo agli ulteriori compensi percepiti a titolo di lavoro straordinario e notturno, mentre con il successivo ricorso del 17 dicembre 2009 l’attore rivendicava la corretta liquidazione del diverso credito, concernente il proprio diritto al t.f.r., tenuto conto della festività non fruita, del premio di anzianità aziendale e dei permessi retribuiti non fruiti nonché dell’indennità ferie non fruite. Di conseguenza, non si vede in quali termini il giudicato di cui alla sentenza in data 18-11-08, concernente l’esatta determinazione del premio di fedeltà, potesse precludere l’esercizio del diritto alla corresponsione di quanto per intero dovuto a titolo di t.f.r.. Pertanto, la Corte territoriale ha ben chiarito come nella specie fosse inapplicabile il principio affermato dalle Sezioni unite del 2007, circa il divieto di frazionamento, però rapportabile al concetto di unicità di rapporto obbligatorio, laddove nell’ambito del rapporto di lavoro si determina una pluralità di obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, concernente istituti economici diversi, di natura retributiva e non solo. Di conseguenza, l’affermazione di principio contenuta nelle citate pronunce di questa Corte poteva calarsi soltanto all’interno di ciascuno di tali rapporti obbligatori, non riguardando perciò il loro complesso, sicché non poteva affermarsi che alla cessazione del rapporto si venga a costituite in capo al prestatore di lavoro un “unico credito”, costituito somma delle voci economiche, retributive e/o rísarcitorie, ancora da esso derivanti. Pertanto, il ricorso va respinto, sussistendo tuttavia valide ragioni per la compensazione delle relative spese, tenuto conto delle incertezze interpretative manifestatesi in materia, tant’è che si è reso necessario un ulteriore intervento nomofilattico da pare delle Sezioni unite di questa Corte, come da recente citata pronuncia n. 4090/17.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara per intero compensate le relative spese.