CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 11491 del 9 marzo 2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 27 gennaio 2016 la Corte di Appello di Palermo ha parzialmente riformato, rispetto al solo trattamento sanzionatorio da adottare nei confronti di Piera Giuliano e Tiziana Giuliano, la statuizione del Tribunale di Palermo del 3 dicembre 2013 con cui gli imputati erano stati ritenuti responsabili del reato di cui all’ art. 648-bis, 2° c., c.p.. Gli imputati erano stati tratti a giudizio in quanto in tesi accusatoria, quali legali rappresentanti o soci delle compagini sociali Auto e Auto s.r.l. e Auto e Nautica s.a.s., senza avere partecipato al reato di sottrazione e illecita commercializzazione di idrocarburi commesso fino al marzo 2002 da Francesco rn Giuliano, definito nell’ ambito di un differente procedimento penale, avevano utilizzato i ricavi delle condotte illecite commesse dal proprio congiunto nelle attività economiche svolte dalle società a loro riconducibili facendo temporaneamente transitare le relative somme nella contabilità sociale, a titolo di finanziamento soci non oneroso, e poi recuperando le stesse nel corso del medesimo esercizio contabile; in questo modo gli imputati avevano ripulito i proventi dell’ attività illecita di Francesco Giuliano e ostacolato l’ identificazione della provenienza delittuosa del denaro utilizzato.

2. Ha proposto ricorso per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore degli imputati, lamentando, con i seguenti motivi di doglianza, così riassunti entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.:

2.1 ai sensi dell’ art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. la violazione e l’ errata applicazione degli artt. 648-bis c.p., 2621 c.c., 192 e 533, comma 1, c.p.p., in ragione del contenuto illogico e contraddittorio della sentenza impugnata e della mancanza di motivazione in ordine alla concreta configurabilità del delitto di autoriciclaggio rispetto alla condotta tenuta dall’ amministratore di fatto e socio di maggioranza delle compagini sociali. In particolare i ricorrenti hanno sostenuto che la mera responsabilità di posizione assunta nelle compagini sociali di cui Francesco Giuliano era socio di maggioranza e amministratore di fatto poneva il problema, ignorato dalla corte territoriale, della configurabilità del delitto di autoriciclaggio, non punibile all’ epoca dei fatti, piuttosto che della loro compartecipazione con il congiunto nella creazione di uno schermo tra il denaro e la sua provenienza. La Corte d’ Appello peraltro a giudizio della difesa avrebbe omesso dapprima di fornire adeguata prova in merito al fatto che Francesco Giuliano avesse ricavato illeciti profitti in misura corrispondente ai finanziamenti soci non onerosi riversati nelle società riconducibili al suo nucleo familiare, quindi di dimostrare che questi finanziamenti corrispondevano effettivamente alla realtà dei fatti e non costituivano invece meri artifizi contabili compiuti per ridurre il saldo contabile del conto cassa.

2.2 ai sensi dell’ art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. la violazione e l’ errata applicazione degli artt. 648-bis c.p., 192 e 533, comma 1, c.p.p., in ragione dell’ illogicità della motivazione in merito alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato in contestazione, non potendosi desumere dal mero rapporto parentale o di affinità con Francesco Giuliano la conoscenza da parte degli imputati dell’ attività illecita commessa dal congiunto e dell’ origine delittuosa delle somme conferite a titolo di finanziamento;

2.3 ai sensi dell’ art. 606 lett. b) c.p.p. la violazione e l’ errata applicazione dell’ art. 648-bis, comma 3, c.p., in quanto la diminuente prevista da tale norma doveva essere riconosciuta tenendo conto del trattamento sanzionatorio applicato all’ esito del bilanciamento delle circostanze.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La corte territoriale ha fondato il proprio convincimento sulle risultanze del verbale di constatazione della Guardia di Finanza del 31 luglio 2002 che, prendendo le mosse dallo specifico accertamento della sproporzione tra i quantitativi di prodotto conteggiati dai contatori fiscali in entrata e quelli misurati presso le pensiline di carico in uscita e dal conseguente riscontro dell’ esistenza di riserve occulte di prodotto petrolifero accumulato da commerciare in nero, ha trovato conferma dell’ ipotesi investigativa non solo nelle dichiarazioni rese dagli indagati Salvatore D’Acquisto e Francesco Giuliano ma anche nella verifica in un’ occasione della presenza all’ interno di ,autobotte di un quantitativo di prodotto di gran lunga superiore rispetto a quello conteggiato in uscita, a dimostrazione della capacità dell’organizzazione dedita allo smercio in nero del prodotto petrolifero accumulato di estrarre prodotto senza che i contatori alle pensiline lo calcolassero e rimanesse traccia di contabilità; gli inquirenti hanno stimato in via prudenziale i quantitativi di prodotto sottratti dal deposito Esso di Palermo tenendo conto dei viaggi svolti dalle navi nel periodo in contestazione (senza ovviamente considerare, come proposto dal consulente tecnico della difesa, alcun prezzo di acquisto dei prodotti petroliferi, dato che questi ultimi venivano fraudolentemente sottratti dal deposito) e hanno poi calcolato sulla base del prezzo medio del carburante i ricavi così ottenuti da Francesco Giuliano. La corte territoriale ha poi potuto constatare, in sintonia con il giudice di primo grado, come i ricavi illeciti di simili attività fossero pressoché corrispondenti, nel loro complesso e per singola annualità, ai finanziamenti effettuati in favore delle società di cui gli odierni ricorrenti erano legali rappresentati e/o soci. Infine la Corte d’ Appello ha registrato l’ effettiva esistenza dei flussi di denaro in entrata e in uscita, alla luce dell’ analisi dei conti bancari compiuta dalla Guardia di Finanza e delle ammissioni dello stesso Francesco Giuliano; questo accertamento, a prescindere dal presumibile contenuto fittizio delle annotazioni del conto cassa, vanifica secondo entrambi i giudici di merito le ipotesi di studio illustrate dal consulente tecnico della difesa e dal consulente della curatela fallimentare. In questo modo la Corte territoriale ha tratto da plurimi elementi certi nella loro oggettività (costituiti dai quantitativi di prodotto petrolifero sottratto e dai movimenti in entrata e in uscita sui conti bancari facenti capo alle società rappresentate o partecipate dai ricorrenti), di cui ha ravvisato anche il carattere concordante (stante la sostanziale coincidenza delle somme ricavate dall’ attività illecita e conferite a titolo di finanziamento) e grave (in ragione della loro contiguità logica con il fatto ignoto), la convinzione che le somme ottenute dalla commercializzazione delle riserve occulte di prodotto petrolifero accumulato fossero state canalizzate verso le compagini Auto e Auto s.r.l. e Auto e Nautica s.a.s. al fine di ostacolare l’ identificazione della loro provenienza delittuosa e ripulire i ricavi illeciti dell’ attività criminale in precedenza posta in essere. Una simile motivazione apprezza la congerie istruttoria facendo corretta applicazione dei requisiti stabiliti dall’ art. 192, 2° c., c.p.p. per la prova indiziaria, offre una ricostruzione esente da vizi di manifesta illogicità e non è dunque censurabile in questa sede. La corte territoriale ha altresì rilevato come non risultasse in alcun modo dimostrato che Francesco Giuliano fosse l’ effettivo dominus e titolare delle società Auto e Auto s.r.l. e Auto e Nautica s.a.s. e che gli imputati operassero come meri soci o amministratori senza effettivi poteri di gestione; a questo riguardo la Corte d’ Appello non solo ha spiegato che l individuazione in Francesco Giuliano dell’ autore dei reati presupposti non comportava in via automatica che i conferimenti in denaro avvenissero senza il contributo di chi rivestiva un ruolo gestionale nelle singole compagini, ma ha anche aggiunto che Vincenzo Randazzo era risultato titolare di poteri gestionali effettivi (tanto da essere coinvolto direttamente nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta conseguente al fallimento della società rappresentata), Piera Giuliano aveva direttamente preso parte alle decisioni assembleari di Auto e Auto s.r.l. relative al conferimento di capitale e alla ratifica dell’ operato dell’ amministratore unico in merito alla restituzione ai soci dei versamenti effettuati in conto futuro aumento del capitale sociale e Tiziana Giuliano aveva personalmente posto in essere le condotte in contestazione, provvedendo all’ aumento del capitale sociale di Auto e Nautica s.a.s., al versamento della somma a titolo di finanziamento da socio non oneroso e all’ esecuzione dei prelevamenti con cui erano stati restituiti tutti i finanziamenti in precedenza effettuati e azzerato il conto sociale. A fronte di una simile diffusa argomentazione le censure mosse con il ricorso espongono critiche che si fondano su un confronto diretto con i dati processuali e non già con la motivazione della sentenza secondo il paradigma stabilito dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in forza del quale il vizio della motivazione per avere rilievo in sede di legittimità deve essere desumibile dal testo del provvedimento impugnato.L’ inosservanza della regola comporta che le censure attengano al merito della decisione impugnata, introducendo una rivalutazione in fatto che è preclusa nel giudizio di legittimità.

2. In merito alli elemento soggettivo dei reati in contestazione la corte territoriale ha ritenuto di poter desumere la consapevolezza, intesa anche come rappresentazione dell’ eventualità della provenienza delittuosa del denaro, da una serie di circostanze, costituite dall’ assoluta analogia delle condotte poste in essere in entrambe le società e dalla circostanza che nessuno degli imputati abbia saputo e potuto giustificare la provenienza dei finanziamenti economici; queste circostanze, unitamente allo stretto legame di parentela o affinità con Francesco Giuliano, alla sussistenza di interessi comuni di ordine patrimoniale riconnessi alla partecipazione nelle medesime compagini societarie ed alla consistenza delle somme immesse nei conti della società, dimostrano secondo la Corte d’Appello come gli imputati si fossero rappresentati la concreta possibilità della provenienza delittuosa del denaro ricevuto e investito e avessero accettato, con piena coscienza e volontà, il rischio di compiere delle operazioni di riciclaggio. Una simile valutazione, esente da manifesti vizi logici, è coerente all’ orientamento di questa corte in merito alla possibilità che il dolo nel reato di riciclaggio si configuri nella forma eventuale (“In tema di riciclaggio, si configura il dolo nella forma eventuale quando l’agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il rischio, della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito” Sez. 2, n. 8330 del 26/11/2013 – dep. 21/02/2014, Antonicelli e altri, Rv. 25901001) e tiene conto altresì della recente giurisprudenza delle sezioni unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26110501), seppur relativa a reati di evento, secondo cui la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa nonché la durata e la ripetizione dell’ azione (evenienze che nel caso di specie sono state ravvisate dal giudice del merito nel fatto che le ingenti somme furono sempre versate in denaro contante e per importi mai superiori a £ 20.000.000, all’ evidente scopo di eludere la normativa antiriciclaggio) costituiscono elementi indicatori del dolo eventuale.

3. Il ricorrente propone di interpretare il disposto dell’ art. 648-bis, comma 3, c.p. ritenendo che lo stesso sia riferito al delitto presupposto in concreto realizzato, alli esito del bilanciamento delle circostanze. La tesi non può essere condivisa in ragione del tenore letterale della norma, che fa espresso richiamo al limite massimo della pena stabilita per il reato presupposto.

Una simile dizione impone di tener conto non tanto del delitto presupposto in concreto realizzato, per come valutato nella competente sede processuale, ma piuttosto del limite massimo della pena edittale prevista per tale reato. Per le considerazioni sopra esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili; ne consegue, a norma dell’ art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del procedimento e, quanto a ciascuno di essi, al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di C 1.500 a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro millecinquecento ciascuno a favore della Cassa delle ammende.