CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 novembre 2022, n. 33125
Licenziamento – Sottrazione di beni aziendali – Furto di portafogli – Legittimità del recesso
Fatti di causa
La Corte di appello di Palermo con la sentenza n. 660/2019, riformando la decisione del tribunale, aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato da L. Italia spa a R. W. In data 21.10.2016. La Corte territoriale aveva ritenuto provato l’addebito mosso, relativo alla sottrazione da parte della lavoratrice di beni aziendali (portafoglio di L.V.), accertata attraverso il controllo della borsa della lavoratrice al momento dell’uscita dal luogo di lavoro. Il giudice rilevava, attraverso registrazione di videocamera e attraverso le dichiarazioni rese dai testi, che la R. si era appropriata del portafoglio prelevandolo dallo scaffale e nascondendolo nella parte anteriore dei pantaloni. Il ritrovamento del medesimo portafogli nella borsa della ricorrente (che nell’immediato ne confessava l’appropriazione, ritrattando successivamente la dichiarazione) e le ulteriori risultanze istruttorie raccolte, determinavano il convincimento del tribunale nel ritenere la lavoratrice responsabile del furto con conseguente legittimità del recesso datoriale.
Avverso detta statuizione la R. proponeva ricorso cui resisteva con controricorso L. Italia spa.
Ragioni della decisione
1)- Con il primo motivo è dedotta (ex art. 360 co.1 n. 3 c.p.c.) la violazione e falsa applicazione dell’articolo 154 co.1, lettera c del decreto legislativo n. 196/2003 e dell’articolo 162 co. 2 ter, come richiamati dal provvedimento del garante della privacy del 08/04/2010 e dal provvedimento autorizzativo della DTL di Palermo.
La ricorrente censura la decisione della Corte con riguardo alla impossibilità di ottenere i filmati integrali relativi alle registrazioni della data del 1 ottobre 2016 (data dell’evento imputato), a suo dire importanti per accertare se terzi avessero inserito il portafogli nella sua borsa.
Va precisato che il giudice del merito aveva evidenziato come tali filmati non potessero essere prodotti nella loro interezza poiché ne era prevista la distruzione entro le 24 ore successive alla registrazione, in ossequio al provvedimento dell’Autorità del garante della privacy datato 8 Aprile 2010. La società aveva infatti chiarito di aver conservato solo la parte dei filmati relativi ai fatti addebitati alla lavoratrice.
Il vizio richiamato (violazione di legge) risulta estraneo al reale oggetto della censura che, più propriamente, attiene alla valutazione del giudice circa la valenza probatoria dei soli frammenti della registrazione.
Il motivo è inammissibile poiché la scelta istruttoria della corte sarebbe al più denunciabile solo con riguardo all’eventuale omesso esame di circostanza effettivamente dirimente rispetto all’addebito mosso (non solo ipoteticamente “ricercabile” nel video), non evidenziata nella censura (Cass. n. 23194/2017).
Peraltro, secondo quanto chiarito dalla società, non erano presenti videocamere nello spogliatoio e, pertanto, risulta ancor più lontano dalla rilevanza concreta la visione integrale della registrazione in questione, con esclusione, altresì, di ogni profilo di violazione del principio di vicinanza della prova che, per attivarsi, deve comunque fondarsi su un elemento costitutivo del diritto azionato (Cass. n. 12490/2020), da escludersi nel caso di specie.
2)- Il secondo motivo denuncia l’omesso esame da parte della Corte di merito dei fatti accertati nella fase del giudizio di opposizione con conseguenziale travisamento degli stessi (art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.). In concreto parte ricorrente lamenta l’errata valutazione di quanto accertato dal tribunale nella fase a piena cognizione relativamente alla assenza di prova sulla coincidenza del portafoglio rinvenuto nella borsa della lavoratrice con quello risultato sottratto al magazzino.
Lasciando in disparte la inadeguatezza del vizio richiamato rispetto al contenuto della doglianza, si sottolinea come la censura, comunque, non rispetti il principio di specificità poiché non è in essa riportato il verbale di udienza dinanzi al giudice dell’opposizione a cui la doglianza fa riferimento. La mera indicazione della sua allocazione nel fascicolo d’ufficio non risulta sufficiente ad esplicitare e far comprendere quali possano essere gli “eventi trascritti” utili a determinare una differente valutazione del giudice d’appello. Peraltro l’accertamento svolto dinanzi al tribunale non costituisce un giudicato alla cui osservanza il giudice di appello sarebbe tenuto. La corte palermitana ha infatti svolto la propria valutazione, cui era tenuta, sulla base dell’insieme delle circostanze (ritrovamento nella borsa, registrazioni, testimonianze), rispetto alle quali nessuno specifico elemento di contrasto, determinante, è stato allegato neppure in questa sede. Il motivo è pertanto inammissibile.
3)-La terza censura ha ad oggetto la violazione ed errata applicazione della legge n. 300/1970, art. 7, legge n. 604/1966 art. 5, articolo 414 c.p.c. e, art. 106 c.c nella parte in cui la sentenza ha addossato onere di dimostrare la responsabilità di soggetti terzi, ben individuati, che, sottratto il portafoglio all’azienda, lo introducevano nella borsa della ricorrente. Violazione e malgoverno del principio di prossimità della prova in violazione dell’articolo 2697 codice civ.
La doglianza non coglie nel segno poiché la Corte d’appello ha fondato il proprio convincimento su una serie di elementi di prova, come già indicato, che costituiscono la ragione del convincimento raggiunto; il richiamo alla assenza di prova circa l’eventuale presenza di una terza persona che avesse introdotto il portafoglio nella borsa della lavoratrice non ha, dunque, il significato di imporre una probatio diabolica a quest’ultima, ma rientra nell’ordinario equilibrio fra onere di prova e eccezione necessaria a contrastare l’elemento probatorio acquisito ( Cass.n. 486/2016; su principio di vicinanza della prova Cass. n. 12490/2020) Il motivo è dunque inammissibile.
4)- Da ultimo è dedotta la violazione o errata applicazione della legge n. 300/1970, legge n. 604/1966 art. 5, articolo 414 c.p.c. art. 2106 c.c., con riguardo alla parte in cui la sentenza impugnata ha statuito che se l’ addebito in oggetto fosse stato integralmente provato esso sarebbe stato sufficiente a giustificare la sanzione espulsiva e che sul punto si sarebbe formato il giudicato.
Pur richiamando il vizio di violazione di legge in realtà il motivo è diretto a riproporre in sede di legittimità la valutazione di circostanze di fatto già vagliate dal giudice del merito e quindi estranee a questa sede processuale.
Questa Corte ha chiarito che “È inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass.n. 8758/017- Cass. n. 18721/2018).
Per le esposte ragioni il ricorso è inammissibile. Le spese seguono il principio di soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E. 4.000,00 per compensi ed E. 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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