CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 dicembre 2020, n. 28265
Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico – Redditometro – Indici di capacità contributiva – Indici di spesa
Rilevato che
D.A.I. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 08/34/2013, depositata il 16.01.2013 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la quale, a conferma della sentenza di primo grado, erano rigettate le impugnazioni avverso gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato con metodo sintetico il reddito relativo agli anni d’imposta 2005, 2006 e 2007 sulla base degli indici di spesa.
Ha riferito che a seguito di verifiche ex art. 38 co. 4 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 erano stati recuperati a tassazione redditi dell’importo di € 47.625,80 per ciascun anno d’imposta sulla base degli indici di capacità contributiva, costituiti dall’acquisto e dal costo di gestione di cespiti immobiliari ed autovetture, nonché dalla capacità di accumulo di disponibilità finanziarie, pari ad € 238.129,00. Il ricorrente, che nella fase endoprocedimentale aveva rinunciato a definire con adesione la posizione fiscale emersa, aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Milano avverso gli atti impositivi notificatigli per gli anni d’imposta 2005, 2006 e 2007. Con i ricorsi aveva contestato l’applicazione del redditometro, sollevando questioni di legittimità costituzionale della relativa disciplina per violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost., in ogni caso insistendo sulla compatibilità dei propri redditi con quanto dichiarato. Con riferimento poi alla documentazione in suo possesso, rinvenuta nel corso di un controllo al confine svizzero (dogana di Ponte Chiasso), aveva insistito sulla estraneità nella titolarità di quei titoli, appartenenti invece a suo dire ad un cliente, di cui non poteva fare il nome per segreto professionale. Con sentenze nn. 151, 152 e 153/41/2012 il giudice di primo grado aveva rigettato i ricorsi. Appellate le tre decisioni dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, il giudice regionale, previa riunione dei tre giudizi, aveva rigettato le impugnazioni con la sentenza ora al vaglio della Corte. Con la decisione erano state ritenute infondate le questioni di legittimità costituzionale della disciplina sull’accertamento sintetico, e di contro corretta l’applicazione del redditometro al caso di specie, in assenza di qualunque elemento addotto dal ricorrente a giustificazione degli indici di ricchezza rilevati.
Il contribuente censura con tre motivi la sentenza:
con il primo per nullità o infondatezza dell’atto impugnato per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., e ciò per una pluralità di aspetti, quali l’allegazione della documentazione idonea a contrastare le contestazioni fiscali dell’amministrazione; l’inapplicabilità del redditometro nell’ipotesi di obbligo al segreto professionale; per l’incostituzionalità della disciplina applicata;
con il secondo per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., per aver erroneamente riconosciuto le prove su cui l’Amministrazione finanziaria aveva preteso di fondare l’accertamento;
con il terzo motivo per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., in merito alla qualifica di investigatore privato del contribuente, e sull’obbligo di segreto professionale.
Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale provvedimento.
Si è costituita l’Agenzia, che ha eccepito l’inammissibilità dei motivi di ricorso, contestando in ogni caso le avverse ragioni.
Considerato che
Il primo motivo, con il quale il ricorrente, invocando l’errore di diritto, denuncia la nullità della sentenza impugnata sotto più profili, è in parte inammissibile, in parte infondato. Il D. lamenta che il giudice d’appello non ha esaminato la documentazione allegata dal contribuente, sostiene l’inapplicabilità del redditometro ad un’ipotesi nella quale il contribuente era vincolato al segreto professionale, eccepisce che la disciplina dell’accertamento sintetico mediante indici di spesa violi numerosi parametri costituzionali, in particolare gli artt. 3, 53, 23, 70 e 76 della Cost. Afferma inoltre che il redditometro violi il principio di uguaglianza perché la discrezionalità tecnica dell’Ufficio nel ricorso a tale tipo di accertamento consente il suo utilizzo per taluni contribuenti e non per tutti; violi anche il principio della riserva di legge, perché gli elementi indicativi di capacità contributiva, con la modifica apportata all’art. 38, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 dall’art. 1, d.l. 31 maggio 1994, n. 330, conv. in l. 27 luglio 1994, n. 473, sono rimessi non già a fonti normative primarie, ma a decreti del Ministro dell’economia. Conclude dunque per l’illegittimità dell’atto impugnato, da vagliarsi anche alla luce della sopraggiunta I. 27 luglio 2000, n. 212.
Il motivo è innanzitutto inammissibile per difetto di autosufficienza laddove lamenta che il giudice d’appello non ha preso in considerazione la documentazione allegata dal contribuente. Non si specifica quale sia questa documentazione, né in quale grado e fase processuale essa sia stata allegata, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ.
Quanto alla denuncia della disciplina sull’accertamento sintetico, per violazione dei parametri costituzionali, è qui sufficiente rammentare che la Corte costituzionale, come peraltro già richiamato dal giudice d’appello, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 70, 76, 3 e 100, primo comma della Costituzione ed in relazione all’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, dell’art. 38, quarto comma, secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come sostituito dall’art. 1 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, comma ulteriormente modificato dall’art. 1 del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 330, convertito, con modificazioni, nella legge 27 luglio 1994, n. 473. Ha affermato l’inconferenza del richiamo agli artt. 70 e 76 della Costituzione, laddove l’ordinanza di rimessione, come nel caso di specie, tendeva a censurare il merito della scelta operata dal legislatore e non la violazione di uno specifico criterio direttivo, chiarendo in ogni caso che, anche a voler ritenere che con il richiamo a tali norme, nella sostanza, si fosse dedotta la violazione del principio della riserva di legge, era sufficiente richiamare la costante giurisprudenza costituzionale, secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, imponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente i criteri direttivi di base e le linee generali di disciplina della discrezionalità legislativa, con la conseguenza che, nell’accertamento sintetico mediante indici di spesa e ricorso al cd. redditometro, risultava in ogni caso rispettata la riserva di legge relativa. È stato anche chiarito che nessuna norma costituzionale o di legge stabilisce che in materia tributaria i regolamenti debbano essere adottati con regolamento governativo, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988, per cui non sussisteva l’asserito contrasto con il principio di razionalità costituzionale (ord. 9 giugno 2004, n. 297).
D’altronde questa Corte anche di recente ha affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, commi 4 e ss., del d.P.R. n. 600 del 1973, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., nella I. n. 122 del 2010, nella parte in cui consente l’accertamento con metodo sintetico mediante il cd. redditometro, con riferimento sia all’art. 23 Cost., poiché i relativi decreti ministeriali non contengono norme per la determinazione del reddito, assolvendo soltanto ad una funzione accertativa e probatoria, sia agli artt. 24 e 53 Cost., in quanto il contribuente può dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito accertato è insussistente ovvero costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta (Cass., 24 aprile 2018, n. 10037).
Quanto poi a tutte le altre considerazioni e osservazioni formulate nel lungo motivo dal contribuente, con cui tenta di contestare la compatibilità del suo reddito con gli indici di ricchezza evidenziati dall’Agenzia (acquisto nel quinquennio precedente all’accertamento di una unità abitativa a Rapallo, 50% dei costi di gestione dell’unità abitativa familiare ad Assago, disponibilità di due autovetture e di un motociclo, disponibilità finanziarie per € 238.129,00, incidenti per ciascun anno d’imposta nella misura del quinto, e dunque per € 47.625,80), la difesa si riduce ad un insieme di osservazioni che tentano di denunciare l’inadeguatezza dei parametri applicati, l’iniquità e infondatezza giuridica dell’accertamento sintetico.
Ebbene, questa Corte ha già affermato che in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicché è legittimo l’accertamento fondato su di essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (cfr. Cass., 10 agosto 2016, n. 16912/2016; 31 ottobre 2018, n. 27811). Peraltro nulla il ricorrente ha chiarito in ordine alla sussistenza di ulteriori redditi, che giustificassero quella espressione degli indici di spesa; né, quanto ai titoli finanziari la cui documentazione è stata acquisita al momento del controllo al confine svizzero, può accettarsi l’arroccamento della difesa che invoca il segreto professionale del contribuente, perché al di là della rivelazione del nome del cliente che il D. sostiene che rappresentasse in quel momento, ed a prescindere da ogni considerazione sul diritto dell’investigatore privato a invocare il segreto professionale, dalla difesa non emerge comunque alcun minimo riscontro della complessa storia raccontata nel ricorso.
Il motivo va dunque rigettato.
Sono invece inammissibili il secondo ed il terzo motivo, con cui il D. denuncia il vizio motivazionale della sentenza per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’erroneo riconoscimento delle prove su cui l’Amministrazione finanziaria aveva preteso di fondare l’accertamento, nonché in merito alle valutazioni espresse dal giudice d’appello sull’obbligo di segreto professionale dell’investigatore privato.
Occorre premettere che la sentenza è stata depositata il 16 gennaio 2013, ossia nella vigenza dell’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla I. 7 agosto 2012, n. 134.
Con esso non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure per contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità su di essa resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, co. 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940). Sicché con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio di motivazione, denunciabile per cassazione, deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Neppure l’omesso esame di elementi istruttori integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., 29/10/2018, n. 27415).
Ebbene, nel caso di specie le questioni sollevate con i due motivi sono del tutto estranee al concetto di fatto storico. A margine si tratta di un racconto della vicenda del tutto privo di riscontri. Vanno pertanto dichiarati inammissibili.
In conclusione il ricorso va rigettato e le spese processuali seguono la soccombenza, liquidandosi come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione in favore della Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del co. 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.