CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 maggio 2018, n. 12095
Licenziamento – CCNL Metalmeccanici – Interpretazione – Assenza dal lavoro – Breve permesso – Mancata giustificazione
Rilevato
che con sentenza 3 dicembre 2015 ai sensi dell’art. 281sexies c.p.c., la Corte d’appello di L’Aquila dichiarava illegittimo il licenziamento intimato il 19 ottobre 2009 da S. s.p.a. a L.M., ordinandone alla prima la reintegrazione nel posto di lavoro e condannandola al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal 16 marzo 2012, data di deposito del ricorso introduttivo, fino all’effettiva reintegrazione, oltre accessori e regolarizzazione della sua posizione previdenziale: così riformando la sentenza di primo grado, che ne aveva invece rigettato le domande;
che avverso tale sentenza la società ricorreva per cassazione con sei motivi, cui resisteva il lavoratore con controricorso;
che il pubblico ministero comunicava le sue conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c. ed entrambe le parti memoria ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c.;
Considerato
che la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 13 CCNL Metalmeccanici, per erronea interpretazione della seconda disposizione (regolante le “assenze” del dipendente, per motivi anche diversi dalla malattia, in esse comprese quelle per breve permesso), pure comparativamente con la prima (“trattamento in caso di malattia ed infortunio non sul lavoro”), nel senso della mancanza di obbligo di giustificazione dell’assenza in caso di breve permesso, invece necessaria secondo la previsione generale del primo comma, secondo cui: “Le assenze debbono essere giustificate al più tardi entro il giorno successivo … “(primo motivo); omesso esame del fatto decisivo per il giudizio della contestata recidiva sull’erroneo presupposto dell’insussistenza delle infrazioni addebitate, unitamente ad essa, con lettera del 16 settembre 2009 (secondo motivo); violazione e falsa applicazione dell’art. 10, Titolo VI CCNL Metalmeccanici, per erronea esclusione della recidiva quale autonoma causa di recesso con preavviso “in qualunque delle mancanze contemplate nell’art. 9, quando siano stati comminati due provvedimenti di sospensione di cui all’art. 9”, nel quale prevista sub b) l’ipotesi di chi “senza giustificato motivo ritardi l’inizio del lavoro o lo sospenda o ne anticipi la cessazione” (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 10, Titolo VI CCNL Metalmeccanici e 2118 c.c., per legittimità e proporzionalità del licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo, in quanto conforme alla previsione contrattuale collettiva denunciata di licenziamento con preavviso “in qualunque delle mancanze contemplate nell’art. 9, quando siano stati comminati due provvedimenti di sospensione di cui all’art. 9”, nel quale prevista in particolare l’ipotesi di chi “abbandoni il proprio posto di lavoro senza giustificato motivo”: come appunto nel caso del dipendente M., destinatario di due provvedimenti di sospensione (il 22 luglio 2008, di un giorno; il 18 maggio 2008, di due giorni) per tale ragione (quarto motivo); omesso esame di fatto decisivo per il giudizio della ritenuta sproporzione tra infrazione contestata e sanzione espulsiva applicata, in assenza di lamentele del lavoratore sulla propria inidoneità alla mansione assegnata, né di giustificazione con essa delle proprie condotte sanzionate, in epoca anteriore all’impugnazione giudiziale del licenziamento: argomentazioni pure escluse dalla Corte territoriale ai fini della configurabilità di un’eccezione di inadempimento del lavoratore medesimo, a norma dell’art. 1460 c.c. (quinto motivo); omesso esame del fatto decisivo per il giudizio dell’eccezione datoriale di detrazione dell’aliunde perceptum, previa acquisizione di idonea documentazione volta all’accertamento dei redditi o tramite certificazioni sullo stato occupazionale dai competenti uffici presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, per la cui esibizione, in ordine all’interrogatorio formale del lavoratore, reiterate le istanze (sesto motivo);
che ritiene il collegio che il primo motivo sia infondato;
che spetta, come noto, a questa Corte la diretta interpretazione delle clausole dei contratti o accordi collettivi di lavoro, denunciate di violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. (come modificato dall’art. 2 d.Ig. 40/2006 n.40), per la loro parificazione sul piano processuale a quella delle norme di diritto, in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento da parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti (Cass. 19 marzo 2014, n. 6335; Cass. 9 settembre 2014, n. 18946): previa la verificata integrale produzione in giudizio, ai fini di procedibilità ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., del CCNL in esame (Cass. 4 marzo 2015, n. 4350; Cass. 11. gennaio 2016, n. 195; Cass. 23 novembre 2017, n. 27493), per il pieno adempimento della funzione nomofilattica di questa Corte e la necessità di applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c., anche mediante l’esame di altre clausole collettive diverse da quelle denunciate (Cass. 16 settembre 2014, n. 19507);
che, tanto premesso, appare esatta l’interpretazione dell’art. 13 CCNL per l’Industria Meccanica Privata del 20 gennaio 2008, nel senso inteso dalla Corte territoriale (per le ragioni in particolare esposte al primo e terzo capoverso di pg. 7 della sentenza), sulla base dell’inequivoco tenore letterale, chiaramente espressivo della volontà delle parti a norma del criterio principale stabilito dall’art. 1362 c.c. (Cass. 15 luglio 2016, n. 14432; Cass. 21 agosto 2013, n. 19357; Cass. 28 agosto 2007, n. 18180) ed in ogni caso pure coerente con quello sussidiario dell’art. 1363 c.c., di interpretazione delle clausole le une per mezzo delle altre, in riferimento all’art. 2 dello stesso CCNL, in merito al trattamento in caso di malattia e infortunio sul lavoro;
– che dal testo dell’art. 13 del CCNL denunciato si trae, infatti, l’indubbia e comprensibile necessità di giustificazione (“al più tardi il giorno successivo a quello dell’inizio dell’assenza, salvo il caso di impedimento giustificato”) delle assenze del lavoratore in generale (primo comma), proprio perchè altrimenti prive di alcuna ragione verificabile dal datore di lavoro, a differenza che per la diversa ipotesi del “breve permesso”: posto che l’assenza per tale ragione è stata già previamente giustificata dal datore di lavoro (in virtù del consenso accordato “al lavoratore che ne faccia richiesta”), sulla verificata ricorrenza di “giustificati motivi e compatibilmente con le esigenze del servizio” (terzo comma);
che il secondo motivo è inammissibile;
che il vizio denunciato è inconfigurabile, non sussistendo omesso esame di alcuna circostanza in fatto decisiva ai fini del giudizio, coerente con la previsione del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., posto che la censura si riduce al ravvisato erroneo presupposto dell’insussistenza, invece ritenuta dalla Corte territoriale, delle infrazioni contestate con la lettera del 16 settembre 2009 (così al primo capoverso di pg. 47 del ricorso);
che il terzo e il quarto motivo, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati;
che, una volta accertata l’insussistenza degli addebiti disciplinari contestati, deve essere esclusa la possibilità di configurare quale autonoma ragione del licenziamento intimato la recidiva, posto che essa, per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata (quanto meno) contestata formalmente al medesimo lavoratore (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22162): addirittura a pena di nullità del licenziamento stesso, qualora anche la recidiva (o comunque i precedenti disciplinari che la integrano) rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata (Cass. 23 dicembre 2002 n. 18294; Cass. 25 novembre 2010, n. 23924);
che si deve poi escludere che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, lo possa esercitare una seconda volta per quegli stessi fatti, in quanto ormai consumato: essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati (ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati) per la globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati (Cass. 27 marzo 2009, n. 7523);
che è infine inconfigurabile la denunciata violazione dell’art. 2118 c.c., in difetto dei requisiti suoi propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruirne la portata precettiva, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, né tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 31 maggio 2006, n. 12984; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 24 novembre 2016, n. 24028; Cass. 27 giugno 2017, n. 15973);
che il quinto motivo è inammissibile;
che non ricorre omissione di esame alcun fatto, tanto meno decisivo, vertendo il mezzo su una sostanziale confutazione della ravvisata sproporzione tra addebito contestato (pure accertato insussistente) e sanzione espulsiva comminata, oggetto di un accertamento di fatto di spettanza esclusiva del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità (Cass. 7 aprile 2011, n. 7948; 25 maggio 2012, n. 8293), alla luce del più rigoroso ambito devolutivo introdotto dal novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis: non comprensivo dell’omesso esame di elementi istruttori, siccome non integranti di per sé il vizio denunciato qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498); con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), né essendo tanto meno configurabile l’adombrato vizio di contraddittoria motivazione (a pg. 57 del ricorso), in base a circostanze di cui, in esito a previo esame, è stata giustamente esclusa la pertinenza al provvedimento disciplinare assunto, così come contestato;
che il sesto motivo è pure inammissibile;
che appare evidente l’erroneità della denuncia del vizio come omissione di un fatto, anziché di una pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., essendone oggetto la doglianza di mancato esame di un’eccezione, quale è appunto quella di detrazione dell’aliunde perceptum: posto che la differenza si coglie nel senso che, nella seconda ipotesi, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), mentre nella prima l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia (Cass. 5 dicembre 2014, n. 25761; Cass. 16 marzo 2017, n. 6835);
che pertanto il ricorso deve essere rigettato, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza, con distrazione ai difensori antistatari del controricorrente secondo la loro richiesta;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna S. s.p.a. alla rifusione, in favore de controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge, con distrazione ai difensori antistatari.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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