CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 giugno 2022, n. 19857
Lavoro – Cessione del ramo di azienda – Illegittimità – Licenziamento comminato dalla cessionaria – Ripristino del rapporto di lavoro – Diritto al pagamento delle retribuzioni maturate
Rilevato che
1. con sentenza n. 626 del 2020, la Corte di appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado e accogliendo l’appello di C.A.F., ha rigettato il ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo proposto da T.I. s.p.a., ritenendo sussistente il diritto del F. al pagamento delle retribuzioni non percepite per il periodo 1.3.2014-31.3.2018 conseguenti alla illegittimità del trasferimento di azienda accertata dal Tribunale di Bari con sentenza n.6872 del 22.12.2015;
2. la Corte territoriale, per quel che interessa, ha escluso la formazione di un giudicato esterno rilevando che, all’epoca del giudizio introdotto dal F., nel marzo 2006, per far accertare la declaratoria della illegittimità della cessione di ramo di azienda (da T.I. s.p.a. a M.F. s.p.a.), “il lavoratore non poteva essere titolare di una pretesa retributiva nei confronti di T. né avrebbe potuto sottoporre all’attenzione del giudice la circostanza del licenziamento comminato dalla cessionaria”, circostanze, dunque, nuove e sopravvenute; rilevato che il F. aveva offerto la prestazione lavorativa a T. con lettera raccomandata del 21.4.2016, la Corte territoriale ha condannato la società al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento da parte della società cessionaria sino alla data della domanda giudiziale, pari alla complessiva somma di euro 128.877,63 oltre accessori di legge;
3. per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a due motivi e il lavoratore ha resistito con controricorso, illustrato da memoria;
5. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’articolo 380 bis cod.proc.civ.
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione degli artt. 2909 cod.civ. e 324 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, erroneamente interpretato l’oggetto del procedimento promosso avanti al Tribunale di Bari (e concluso con la pronunzia n. 6872/2015) ove il F. aveva chiesto, nelle conclusioni del ricorso, oltre all’accertamento della illegittimità della cessione del ramo di azienda, altresì “tutte le conseguenze di legge, anche in ordine alle differenze retributive” (essendo irrilevante la ragione del mancato accoglimento della domanda da parte del suddetto Tribunale); invero, il titolo posto a fondamento del diritto di credito, sia nel giudizio svoltosi avanti al Tribunale di Bari sia nel ricorso per decreto ingiuntivo depositato presso il Tribunale di Milano, è sempre lo stesso, ossia l’accertata illegittimità del trasferimento di azienda, che ha fatto sorgere l’obbligo della T. di corrispondere le retribuzioni, essendo un mero accidente, irrilevante, il successivo licenziamento intimato dalla società cessionaria;
2. con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207 cod.civ. avendo, la Corte territoriale, riconosciuto al F. il diritto alle retribuzioni per un periodo precedente all’offerta della prestazione lavorativa (costituzione in mora effettuata il 21.4.2016) e, addirittura, per il periodo precedente la sentenza che ha accertato la illegittimità della cessione, facendo retroagire gli effetti;
3. il primo motivo di ricorso è inammissibile;
4. la domanda di pagamento delle retribuzioni (conseguente al ripristino del rapporto di lavoro per nullità della cessione di ramo di azienda) poteva essere proposta in grado di appello, ma poteva essere fatta valere anche in un giudizio autonomo: invero, come la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova, ed è perciò ammissibile in appello anche nel corso del giudizio (quando l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’impugnazione. Cfr. fra le tante Cass. n. 11491 del 2006), del pari, la domanda di pagamento della retribuzione, conseguente al ripristino del rapporto di lavoro può essere anche fatta valere in autonomo giudizio; Nel caso di specie risulta proposto autonomo giudizio per il pagamento delle retribuzioni conseguenti al ripristino del rapporto di lavoro determinato dalla declaratoria giudiziale di nullità della cessione di ramo di azienda.
Tale domanda non sarebbe stata consentita solo ove, proposta l’istanza di pagamento in sede di gravame, l’omessa pronuncia avesse celato in realtà una reiezione implicita della domanda o un suo assorbimento nella decisione di un altro capo da cui essa dipendeva.
In mancanza di tale presupposto non si forma un giudicato nel caso di mancata impugnazione dell’omessa pronuncia, perché la rinuncia implicita alla domanda ha valore processuale e non sostanziale (cfr. in tema, Cass. n. 18062 del 2018; n. 12387 del 2016).
Se il giudice dell’impugnazione omette di pronunziarsi sul punto, la parte può alternativamente far valere l’omessa pronunzia con ricorso in cassazione o riproporre la domanda restitutoria in separato giudizio, senza che la mancata impugnazione della sentenza determini la formazione del giudicato (Cass. nn. 30495 e 14253 del 2019; Cass. n. 15461 del 2008).
L’omessa pronuncia su domanda dà luogo solo ad un giudicato processuale, ma non ad un giudicato sostanziale:
4.1. a ciò deve aggiungersi che, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., il ricorrente non ha trascritto (né indicato specifici riferimenti per reperire il documento negli atti) la sentenza del Tribunale di Bari del 2015 né ha specificatamente indicato se la domanda di pagamento delle retribuzioni fu proposta nel giudizio di appello e se sia intervenuta la reiezione implicita della stessa, tale da precludere un’autonoma domanda di pagamento. In assenza di tale decisiva specificazione il Collegio non è posto in grado di scrutinare il ricorso.
5. Il secondo motivo di ricorso è anch’esso inammissibile;
6. la doglianza appare nuova e, perciò, inammissibile, non essendo stata, la questione relativa alla mancata valutazione della messa in mora effettuata nel 2016 dal lavoratore al fine del pagamento delle retribuzioni maturate, specificamente trattata nella decisione impugnata, né avendo indicato parte ricorrente i tempi e i modi della sua tempestiva introduzione nel giudizio di primo grado e, quindi, della sua devoluzione al giudice del gravame (cfr. Cass. n. 20694 del 2018).
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in ragione della soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidandole in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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