CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 novembre 2019, n. 30377
Accertamento analitico-induttivo – Art. 39, co. 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973 – Presupposto – Verifica fiscale presso i locali della ditta – Contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio
Rilevato che
G.M., titolare di un’impresa edile, impugnò innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bari, l’avviso di accertamento che recuperava a tassazione IRPEF, IRAP e IVA, per l’annualità 2004, costi indeducibili e maggiori ricavi non dichiarati, e il giudice di primo grado, con sentenza n. 144/2009, accolse il ricorso;
interposto appello dall’ufficio, la CTR della Puglia, con la sentenza in epigrafe, ha accolto il gravame;
il giudice d’appello, per quanto tuttora rileva, ha stabilito che: a) l’avviso di accertamento non era fondato su un acritico recepimento delle risultanze degli studi di settore, ma sull’esito di un’attività ispettiva compiuta dall’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che aveva permesso di ricostruire l’inesattezza degli elementi riportati in dichiarazione; b) da tale accertamento analitico-induttivo è emerso che il contribuente ha dichiarato costi inesistenti (euro 7.007,78) e ha indebitamente ridotto il valore delle rimanenze finali (immobili-merce); c) nella specie, l’omessa comunicazione dell’invito a comparire, ai sensi dell’art. 5, del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, non ha comportato la nullità dell’atto impositivo in quanto la verifica si è svolta nel contraddittorio del contribuente che, in fase amministrativa, non ha espresso alcuna riserva sulle riscontrate incongruenze della dichiarazione; d) l’interessato, a fronte delle contestazioni che gli venivano mosse dall’ufficio, riguardanti le incongruenze della dichiarazione, anche rispetto alle risultanze dello studio di settore, quale presunzione relativa, non ha fornito la necessaria prova contraria, consistente nell’allegazione di elementi idonei a contrastare l’inattendibilità del maggiore reddito accertato e l’apparente antieconomicità dell’attività d’impresa;
il contribuente ricorre per la cassazione, sulla base di tre motivi, cui l’Agenzia resiste con controricorso;
Considerato che
con il primo motivo del ricorso, denunciando, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 10, comma 3-bis, della legge 8 maggio 1998, n. 146, 5, del d.lgs. n. 218/1997, 12, della legge 27 luglio 2000, n. 212, il ricorrente censura la sentenza impugnata che, disattendendo il principio di diritto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità, ha reputato legittimo l’atto impositivo, basato sostanzialmente sugli studi di settore, senza dichiararne la nullità per carenza della preventiva notifica all’interessato dell’invito a comparire;
il motivo è infondato;
è il caso di ricordare il radicato orientamento di questa Corte, per il quale: «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito» (Cass. 29/10/2018, n. 27421, che richiama Cass. sez. un. 24823/2015);
ciò premesso, venendo all’esame del motivo, appare inappuntabile sul piano giuridico la decisione della CTR che, disattendendo la specifica doglianza dell’appellante, ha legittimamente affermato che, nella specie, prima dell’emissione dell’avviso, non era necessario notificare al contribuente l’invito a comparire ex art. 5, cit., giacché non si è trattato di un accertamento fondato sullo studio di settore, ma di un accertamento analitico-induttivo, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, conseguente ad una verifica fiscale compiuta con accesso presso i locali della ditta del contribuente, poggiante anche sugli studi di settore, svoltasi nel pieno contraddittorio dell’interessato, al quale è stato consegnato il processo verbale di constatazione e che, quindi, in fase endoprocedimentale, è stato posto nella condizione di contrapporre le proprie giustificazioni agli elementi di prova acquisiti dall’ufficio; specificamente, la CTR, seguendo un iter argomentativo coerente sul piano logico, ha spiegato che gli organi di controllo, in fase ispettiva, verificata la discordanza tra i dati contabili dell’impresa e quelli dichiarati, hanno rideterminato i ricavi e riclassificato i costi avvalendosi della collaborazione di una persona delegata dal contribuente; quest’ultimo, oltre a non muovere contestazioni o riserve alle risultanze del P.V.C., in fase endoprocedimentale non si è avvalso delle tutele previste dall’art. 12, della legge n. 212/2000, con il deposito di una memoria nel termine di 60 giorni (dal rilascio di copia del processo verbale di chiusura delle operazioni), e non ha neppure formulato istanza di accertamento con adesione, ai sensi dell’art. 6, del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, sicché, conclusivamente, a giudizio della commissione regionale, il contraddittorio con il contribuente è stato pienamente assicurato (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata);
orbene il ricorrente, a fronte di tale articolata motivazione, contenente anche accertamenti in fatto sul percorso procedimentale seguito dall’Ufficio e sull’attività svolta dal contribuente in tale fase prodromica a quella giudiziale, si limita ad invocare (anche) l’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000, senza illustrare sotto quale aspetto detti accertamenti in fatto compiuti dalla CTR sarebbero erronei, tali da integrare una falsa applicazione di legge (neppure è dedotta in questa sede – né risulta essere stata eccepita nel merito – l’invalidità dell’accertamento in relazione al mancato rispetto del termine dilatorio previsto dalla invocata norma, né, in ogni caso, si deducono, ai fini IVA, elementi idonei ad integrare la c.d. prova di resistenza, come richiesto dalla Corte di giustizia – da ultimo Cass. 15/01/2019, n. 701; Cass. 25/01/2017, n. 1969);
con il secondo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere affermato che le risultanze dello studio di settore rilevassero non già come presunzioni semplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ma come vere e proprie prove della capacità contributiva non dichiarata e per avere, quindi, posto a carico di quest’ultimo l’onere della prova contraria, senza che l’Amministrazione finanziaria avesse prima dimostrato la fondatezza della pretesa impositiva;
il motivo è infondato;
si deve rimarcare che la ratio decidendi della sentenza d’appello, diversamente da quanto adombra il ricorrente, non poggia sul mero disallineamento tra il contenuto della dichiarazione per il 2004 e le risultanze dello specifico studio di settore, ma si fonda su una serie di elementi probatori convergenti, così sintetizzabile: a) inattendibilità delle scritture contabili, con specifico riferimento ad alcuni costi ritenuti inesistenti e, sul piano dei componenti positivi, alla “arbitraria riduzione delle rimanenze finali degli immobili”; b) infedeltà dei dati indicati dal contribuente nell’apposita dichiarazione dello studio di settore che egli stesso aveva presentato; c) incongruenze derivanti dall’applicazione dello studio di settore; d) antieconomicità dell’attività svolta;
la CTR, alla stregua di un apprezzamento di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo dal punto di vista del vizio di motivazione (vedi infra), ha qualificato questa serie di elementi come presunzioni semplici, dotate dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, a fronte delle quali (sempre secondo il giudizio della Commissione) il contribuente, gravato del relativo onere probatorio, non ha fornito la prova contraria;
in particolare, con riferimento a tale ultimo aspetto, la CTR ha sottolineato che l’appellante, pur avendo la facoltà di fare valere le proprie ragioni anche in fase processuale, non ha addotto elementi di conoscenza idonei a confutare il risultato dell’accertamento fiscale, non apparendo a tale scopo sufficienti né l’affermazione secondo cui le scritture contabili erano state tenute in modo regolare (anche in considerazione dell’ingiustificata sottovalutazione delle rimanenze finali), né l’affermazione che l’impresa era cessata nel 2005;
con il terzo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente addebita alla CTR di non avere individuato le fonti del proprio convincimento e, inoltre, di non avere illustrato le ragioni per le quali erano stati ritenuti prevalenti gli elementi offerti dall’ufficio, a sostegno della rettifica della dichiarazione, rispetto alle giustificazioni addotte dall’interessato in merito allo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dallo studio di settore; il motivo è infondato;
la CTR, senza incorrere in alcuna aporia sul piano della logica, come suaccennato, ha compiutamente esposto il percorso argomentativo prescelto, laddove, evidentemente, la critica del ricorrente, rivolta a uno soltanto dei plurimo elementi inferenziali che reggono l’accertamento analitico-induttivo, vale a dire quello concernente lo scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi risultanti dallo studio di settore, nella sostanza, pare volta a sollecitare, in modo non consentito, un nuovo accertamento di fatto, da contrapporre a quello compiuto dalla Commissione, che però non è pertinente rispetto al controllo di legalità della decisione impugnata devoluto a questa Corte;
ne consegue il rigetto del ricorso;
le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
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