Corte di Cassazione ordinanza n. 29068 depositata il 6 ottobre 2022
IVA – obbligo del contraddittorio endoprocedimentale – vizio di omessa pronuncia – inammissibilità del ricorso per cassazione in caso di “mescolanza” e di “sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei”
RILEVATO CHE
1. Con avviso di accertamento notificato il 19 settembre 2008, l’Agenzia delle entrate, a fronte di un reddito d’impresa minore, derivante dall’esercizio dell’attività di parrucchiere per signora a Milano, Via M., n. 17, dichiarato per euro 15.527,00, determinava, a seguito di questionario, per l’anno 2005, a fini Irpef, Irap ed Iva, nei confronti di R.A., titolare dell’omonima impresa individuale, nella quale prestava la propria attività coadiuvato dalla moglie e da una dipendente, maggiori ricavi per euro 121.471,00.
2. La CTP rigettava l’impugnazione del R.A., compensando le spese.
3. Su impugnazione del R.A., la CTR della Lombardia, con la sentenza impugnata, in parziale accoglimento dell’appello, “fissa[va] i maggiori ricavi in euro 738,00”, “manda[ndo] l’Ufficio per il ricalcolo delle imposte e delle sanzioni”, con integrale compensazione delle spese di giudizio.
3.1 Rilevava in particolare la CTR:
- “lo stesso appellante riconosce che non era vietato all’Ufficio di svolgere altra attività accertativa”;
- “la pretesa insufficienza del contraddittorio necessario trovava invece riferimento all’applicazione degli studi di settore”;
- “la giustificazione richiesta dalla parte per disattendere le risultanze degli studi di settore emerge dalla grave anomalia derivante dal rapporto costi-ricavi: l’appellante non risponde alla contestazione che, a fronte dei redditi dichiarati pari ad euro 15.489,00, il costo per l’affitto del locale era pari ad euro 794,50”;
- l’avviso di accertamento, nondimeno, “non può essere pienamente confermato: nel locale di 34 mq., si trovavano sette postazioni di lavoro, ma il lavoro era svolto solo dal titolare […], con aiuto non costante della moglie, impegnata ad occuparsi della madre malata, deceduta [il] 14 maggio 2005, e con qualche ora di un’apprendista assunta verso la fine dell’anno”: conseguentemente “il monte orario calcolato dall’Ufficio” doveva essere rideterminato;
- “rilevato quanto precisato dall’Ufficio [in ordine al fatto] che l’incongruenza tra numero delle vestaglie noleggiate e numero delle fatture emesse non è stata utilizzata ai fini del calcolo dei maggiori ricavi, ma soltanto allo scopo di evidenziare la non corretta tenuta della contabilità, presupposto necessario per poter procedere alla ricostruzione analitico-induttiva”, “stimasi equo il calcolo medio di euro 60,00 per 2.500 ore, pari ad un totale di euro 150.000,00, meno Iva [al] 20%”, donde un ammontare dei ricavi pari ad euro 120.000,00, da cui sottrarre, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi non dichiarati, quelli dichiarati per euro 57.262,00.
4. Avverso detta sentenza della CTR, propone ricorso per cassazione il R.A. affidandosi a sei motivi (numerati come cinque, ma in realtà sei, perché vi sono due motivi numerati come 3: cfr. pp. 8 e 9 del ricorso).
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art 24. Cost. in relazione all’art. 360, comma 1, 3, cod. proc. civ.
1.1 In risposta al questionario, erano stati consegnati dal R.A. all’Ufficio documenti in originale, di cui il medesimo non aveva trattenuto copia. Tali documenti non gli sono mai stati restituiti: “circostanza che, più volte contestata dal ricorrente durante i giudizi di merito, non è mai stata smentita dall’Ufficio”. L’Ufficio si è basato su tali documenti per predisporre l’avviso di accertamento. La loro mancata restituzione “ha gravemente leso il diritto di difesa”, in quanto al R.A. “non è stato più possibile produrli in giudizio”. Sull’Ufficio, inoltre, incombe l’obbligo di allegare gli atti richiamati nell’avviso di accertamento.
1.2 Il motivo è inammissibile.
Preliminarmente deve rilevarsi come la deduzione di violazione di legge ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., presupponendo un “errar in iudicando”, sia incompatibile con la denuncia di nullità della sentenza impugnata, che presuppone invece un “errar in procedendo”.
Ulteriormente, pur a prescindere da ciò, non dimostra il ricorrente di avere effettuato alcuna richiesta di restituzione all’Ufficio, quale evidente presupposto della contestazione della mancata restituzione in sé e per sé.
Infine, quanto alla mancata allegazione all’avviso di accertamento dei documenti dal R.A. consegnati all’Ufficio, il loro contenuto, a prescindere dalla materiale disponibilità di una copia degli stessi, era sicuramente noto al medesimo, che d’altronde non allega sotto quali concreti profili abbia subito pregiudizio nella possibilità di articolare adeguate difese.
2. Con il secondo motivo si denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art 24. Cost. in relazione all’art. 360, comma 1, 3, cod. proc. civ.
2.1 Afferma il ricorrente che “nel ricorso in appello è stata rilevata l’illegittimità dell’avviso di accertamento per mancanza del contraddittorio”. È illegittima la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui riferisce la “pretesa insufficienza del contraddittorio necessario” al non essere stato nella specie l’accertamento condotto in applicazione degli studi di settore. In realtà, stante la giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte di cassazione, oltre che di svariate commissioni di primo e di secondo grado, il contraddittorio rappresenta un passaggio cruciale ed indefettibile del pre-accertamento.
2.2 Il motivo è manifestamente infondato.
2.2.1 Dal punto di vista della tipologia dell’esperito accertamento, corretto è il rilievo della CTR nella parte in cui sottolinea che, non essendo l’accertamento basato su studi di settore, il contraddittorio preventivo non era obbligatorio, ragion per cui il contribuente non poteva lamentarne l”‘insufficienza”. Al riguardo, s’è infatti affermato che, “nel caso di accertamento basato esclusivamente sugli studi di settore, l’Amministrazione finanziaria è obbligata ad instaurare il contraddittorio preventivo con il contribuente ai sensi dell’art. 10 della I. n. 146 del 1998, mentre detto obbligo non opera qualora l’accertamento si fondi anche su altri elementi giustificativi, quali” – come nella specie – “riscontrate irregolarità contabili o antieconomiche gestioni aziendali” (Sez. 5, n. 31814 del 05/12/2019, Rv. 656539-01).
2.2.2 Dal punto di vista della tipologia delle imposte recuperate, la censura è formulata genericamente, ricomprendendo tanto le riprese riguardanti le DD. quanto quella riguardante l’Iva. Nondimeno, alla stregua del fondamentale insegnamento di Sez. U, n. 24823 del 09/12/2015, occorre distinguere tra le une e l’altra, atteso che “l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi ‘armonizzati’, mentre, per quelli ‘non armonizzati’, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito” (Rv. 637604-01).
Alla luce di ciò, quanto alle II.DD., la censura è “ex se” manifestamente infondata, trattandosi di un ambito in cui non è previsto – diversamente da quanto opinato dal ricorrente – alcun obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo (recita, infatti, espressamente la massima “sub” Rv. 637605-01 estratta da Sez. U n. 24823 del 2015: “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. ‘a tavolino“‘).
Il discorso, come visto, è diverso per quanto riguarda l’Iva ed in generale i tributi armonizzati, per i quali dalla normativa unionale emerge in via generale un obbligo di contraddittorio endoprocedimentale. Nondimeno, alla stessa stregua di detta normativa, come ribadito in una recente sentenza di questa Sezione, che, a partire dalla citata Sez. U n. 24823 del 2015, ha compiutamente ricostruito le stratificazioni giurisprudenziali sia interne che unionali in punto di contraddittorio, “l’Amministrazione finanziaria è tenuta a rispettare, anche nell’ambito delle indagini cd. ‘a tavolino’ effettuate nei confronti di terzi, il contraddittorio endoprocedimentale ove l’accertamento attenga a tributi ‘armonizzati’, ma la violazione di tale obbligo comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa” (Sez. 5, n. 20436 del 19/07/2021, Rv. 662002-01).
Nella specie, non costa avere il R.A., ancora dinanzi a questa Suprema Corte, assolto a tale onere.
3. Con il terzo motivo (quello di cui a p. 8) si denuncia omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, comma 1, 5, cod. proc. civ.
3.1 La CTR afferma che vi sarebbe una grave anomalia tra costi e ricavi. In realtà, l’anomalia è “nell’errore della CTR, che ha fatto confusione mettendo a confronto il costo con il reddito”: “l’affitto è un costo e non va confrontato con il reddito, ma con i ricavi”; per il 2005, i ricavi sono di euro 262,00, mentre il reddito dichiarato è di euro 15.527,00 e non di euro 15.489,00 come affermato dalla CTR; “il costo per l’affitto del locale messo in relazione al reale valore dei ricavi non presenta [ …] alcuna ‘grave anomalia”‘.
3.2 Il motivo è inammissibile.
3.2.1 Esso, infatti, critica la sentenza impugnata adducendo profili tra loro incompatibili, quale l’omessa motivazione, da una parte, e l’insufficienza e contraddittorietà della stessa, dall’altra (cfr. 5, n. 6150 del 05/03/2021, Rv. 660696-01: “In tema di ricorso per cassazione, è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360, n. 4, c.p.c. e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c., mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.”).
3.2.2 Anche a prescindere da ciò, la sentenza impugnata va scevra dai rilievi rivoltile dal ricorrente, che segmenta la motivazione – pertanto esistente ed effettiva, e non omessa – riferendo “tout court” l’incongruenza apprezzata dalla CTR al rapporto reddito-ricavi.
Scrive alla lettera la CTR, in specie al fine di render conto del disattendimento, da parte dell’Ufficio nell’avviso, delle risultanze dello studio di settore, che la “giustificazione” di detto disattendimento “emerge dalla grave anomalia derivante dal rapporto costi-ricavi: l’appellante non risponde alla contestazione che, a fronte dei redditi dichiarati pari ad euro 15.489,00, il costo per l’affitto del locale era pari ad euro 18. 794,50”.
L”‘anomalia” – secondo la CTR – riguarda dunque il “rapporto costi-ricavi”: solo in seconda battuta – in guisa di specificazione – la CTR evoca il rapporto redditi dichiarati-costo per l’affitto, onde viepiù specificamente sottolineare come il R.A., sulla relativa sproporzione (oggetto delle contestazioni dell’Ufficio, come ricordato nel “fatto” della sentenza impugnata: cfr. in part. p. 3), nulla abbia opposto. Donde nessuna illogicità affligge la motivazione della sentenza impugnata, soprattutto a misura che il ricorrente non formula alcuna censura anche in rapporto allo specifico profilo della ritenuta mancanza di controdeduzioni in punto di sproporzione tra il reddito ed una componente di costo, pacificamente sostenuta per produrlo, superiore allo stesso.
3.2.2.1 Né, ad ogni modo, coglie nel segno, sul duplice piano logico ed economico-giuridico, la censura vertente sulla pretesa incommensurabilità tra reddito e costo. Muovendo infatti da una definizione basilare, ma universalmente accreditata, di reddito come differenza tra ricavi e costi di competenza, il reddito è omogeneo sia ai ricavi che ai costi, dacché, costituendo, questi, espressione della dimensione economica della gestione, il reddito è parimenti un’entità economica gestoria, con la particolarità di ancorarsi ad un determinato periodo di tempo (il periodo d’esercizio), esprimendo una dinamica di flusso. Per tale ragione, è corretto ed anzi usuale analizzare il reddito in sé, senza il filtro dei ricavi, in rapporto ai costi, da inquadrarsi per l’effetto – come poc’anzi visto – alla stregua di costi necessari per produrre il reddito stesso.
4. Con l’ulteriore ‘terzo’ – in realtà quarto – motivo (p. 9 del ricorso), si denuncia violazione degli 112, 113 e 114 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., e violazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.
4.1 Principia il ricorrente affermando che “l’Ufficio ha ritenuto che la situazione economica e finanziaria rappresentata dall’impresa non rispecchiasse quella reale conseguita nell’anno oggetto del controllo” sulla base di una serie di elementi testualmente riprodotti dall’avviso di accertamento (pp. 9-10 del ricorso)..
Indi, richiamata la parte della sentenza impugnata in cui la CTR afferma la necessità di rideterminare il monte orario, rileva il ricorrente che “il Collegio, senza illustrare le modalità, i criteri ed i motivi posti a fondamento del ragionamento che [l’]ha condotto alla rideterminazione del monte-ore […], si limita ad affermare che ritiene ‘equo’ il diverso monte-ore dal medesimo rideterminato” (p. 11 del ricorso).
Ciò integra violazione degli artt. 113 e 114 cod. proc. civ. (ivi).
Sussiste anche violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., atteso che il ricorrente non aveva avanzato alcuna domanda di rideterminazione della pretesa fiscale, neppure subordinatamente rispetto a quella di annullamento dell’avviso (p. 13 del ricorso).
Inoltre, nella sentenza impugnata, “vengono chiaramente criticate le presunzioni riscontrate dall’Ufficio nel caso di specie” proprio nel passaggio della motivazione relativo alla rideterminazione del monte orario: “ciò” – prosegue il ricorrente – “appare rilevante in relazione all’art. 39 d.P.R. 600/73, che consente la rettifica induttiva del reddito dichiarato, pure in presenza di scritture contabili regolarmente tenute, qualora siano provate le ‘omissioni gravi, ripetute e numerose’ delle scritture [stesse] [ …]” (p. 14).
La motivazione della sentenza impugnata è altresì censurabile laddove esplicita aver l’Ufficio precisato che l’incongruenza tra le vestagliette noleggiate e le fatture emesse non era stata utilizzata per determinare i maggiori ricavi, ma solo per evidenziare la non corretta tenuta della contabilità: “si rileva con immediatezza” – osserva il ricorrente – “l’incongruenza della motivazione”, non sfuggendosi alla seguente alternativa: se “il numero di vestagliette è rilevante al fine di dimostrare la non congruità con i ricavi”, “la contabilità va considerata irregolare”; se, invece, “il numero delle vestagliette, noleggiate in quantità fissa tutti i mesi, non è rilevante al fine di dimostrare la non congruità dei ricavi”, “nessuna irregolarità contabile può derivarne” (p. 17 del ricorso).
4.2 Il motivo è inammissibile per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, lo è a cagione della cumulatività delle censure proposte, atteso che, in rubrica, affastella plurimi mezzi promiscuamente indicati, senza una pur minima specificazione delle questioni cui ciascuno si riferisce, e, nella susseguente parte illustrativa, seguita a sovrapporre le ragioni di censura, omettendo di separarle e di indicare a quale censura corrisponde ognuno dei mezzi rubricati. Donde, non immediata essendo la specificazione di mezzi (quanto alla rubrica) e censure (quanto alla parte illustrativa), questa Suprema Corte, ai fini della disamina del motivo, dovrebbe autonomamente, ma per ciò solo irritualmente, procedere ad un’operazione ricostruttiva, in funzione suppletiva di oneri incombenti solo al ricorrente. Alla stregua di tale obiettiva ricostruzione del motivo, resa trasparente dal riassunto svoltane, trova dunque applicazione l’insegnamento che predica l’inammissibilità del ricorso per cassazione in caso di “mescolanza” e di “sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei”, ogniqualvolta “l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira” – come nel caso che ne occupa – “a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al [suddetto] giudice [ …] il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse” (Sez. 1, n. 26874 del 23/10/2018, Rv. 651324-01).
In secondo luogo, il motivo cumula mezzi – oltretutto, erroneamente, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. – viepiù incompatibili, quali sono, da una parte, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., afferente ad un “error in procedendo” determinativo di nullità della sentenza, da dedursi nondimeno ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., e, dall’altra, le violazioni delle altre evocate disposizioni di legge, afferenti, a vario titolo, ad “errores in iudicando”.
In terzo luogo, il motivo aggredisce in principalità l’avviso di accertamento e solo di riflesso la sentenza impugnata, per l’effetto erroneamente deducendo il primo, e non “funditus” la seconda, nell’alveo delle censure.
In quarto luogo, il motivo pretende da questa Suprema Corte, cui sottopone direttamente questioni relative alla valutazione degli elementi di prova (cfr. in specie pp. 18 e 19 del ricorso), una più favorevole rivalutazione del merito della controversa, in patente violazione dei canoni del giudizio di legittimità (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 15276 del 01/06/2021, Rv. 661628-01).
4.2.1 Ad ogni modo, le censure proposte nel motivo sono tutte manifestamente infondate:
– la rideterminazione del monte orario effettuata dalla CTR – al di là del letterale riferimento all’equità contenuto nella sentenza impugnata, relativamente, peraltro, non già alla rideterminazione stessa, ma al “calcolo inziale” (“[ …] stimasi equo il calcolo medio di euro 60 per 2.500 ore”) – trova analitica spiegazione alla luce delle ragioni di non condivisibilità, quanto esclusivamente al monte orario medesimo, dell’operato dell’Ufficio in rapporto alle nuove grandezze (assai più favorevoli al R.A., che dunque non ha neppure un concreto interesse per dolersene) ritenute, alla stregua di un insindacabile giudizio di merito, più aderenti alla realtà imprenditoriale accertata. Sicché non sussiste violazione degli artt. 113 e 114 cod. proc. civ., perché la CTR, correttamente interpretando il proprio ruolo di giudice di merito, si è limitata – ossequiando l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 10875 del 05/04/2022, Rv. 664337-01) – a rendere “un giudizio estimativo basato sull’esame del compendio probatorio e del fatto” e ne ha dato “conto in motivazione in rapporto al materiale istruttorio”, senza debordare nell”‘equità sostitutiva, che attiene al piano delle regole sostanziali utilizzabili in funzione della pronuncia”;
– la dedotta violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. è patentemente destituita di fondamento, alla luce della costante giurisprudenza secondo cui, “il processo tributario è annoverabile tra quelli di ‘impugnazione-merito’, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento dell’Ufficio, sicché il giudice, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte” (cfr. “ex multis” Sez. 5, n. 18777 del 10/09/2020, Rv. 658860-01, in una fattispecie particolarmente significativa in cui la S.C., in applicazione del principio, ha confermato la decisione della CTR che, in parziale accoglimento della domanda, aveva ridotto la pretesa impositiva);
– la conferma, da parte della sentenza impugnata, della validità in sé dell’accertamento analitico-induttivo compiuto dall’Amministrazione è correttamente motivata, posto che la sentenza stessa esplicita di non condividere la. ripresa di cui all’avviso, confermato dalla CTP, esclusivamente in relazione alla determinazione del monte orario e, dunque, ad un’attività di quantificazione che non refluisce sui presupposi dell’accertamento;
in siffatto contesto argomentativo si inserisce la puntualizzazione della CTR circa l’avere l’Ufficio precisato che l’incongruenza tra le vestagliette noleggiate e le fatture emesse era stata tenuta in conto solo ai fini della dimostrazione della non corretta tenuta della contabilità, ma non ai fini del calcolo dei maggiori ricavi. Siffatta puntualizzazione era necessaria, nella logica della CTR, affinché la medesima potesse direttamente procedere a quantificare i maggiori ricavi in funzione della rideterminazione “in melius” del monte orario; essa, pertanto, nell’economia della motivazione, costituisce una sorta di presa d’atto del metodo di calcolo “a priori” applicato dall’Ufficio, ma non implica affatto – come invece preteso dal ricorrente – alcun riconoscimento dell’irrilevanza delle vestaglie ai fini della determinazione dei ricavi. Sotto altro profilo, la suddetta presa d’atto della CTR si estende alla dichiarazione dell’Ufficio di aver tenuto conto della difformità tra vestagliette e fatture solo ai fini della dimostrazione dell’irregolare tenuta della contabilità: premesso che, sul punto, il ricorrente nulla specificamente osserva, reiterando, tuttavia ‘in fatto’, la tesi del noleggio mensile in quantità fissa, senza indicare donde il dato risulti e senza comunque allegare che le quantità noleggiate corrispondono alle fatture o comunque alle prestazioni, rileva che, a fondare la legittimità dell’avviso, secondo la CTR, è, ‘a monte’, l’antieconomicità della gestione imprenditoriale. In tal senso la CTR consta aver fatto corretta applicazione del principio secondo cui “in materia di IVA, l’Amministrazione finanziaria, [finanche] in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente, utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta”, mentre incombe sul contribuente “l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (Sez. 6-5, n. 26036 del 30/12/2015, Rv. 638203-01).
5. Con il quarto – “recte”, quinto – motivo (p. 19 del ricorso) si denuncia violazione dell’art. 10, comma 4-bis, l.n. 146 del 1998 in relazione all’art. 360, comma 1, 3, cod. proc. civ.
5.1 Il R.A. risultava per il 2015 congruo e coerente rispetto allo studio di settore; “l’Ufficio non ha [ …] fornito alcuna motivazione con specifico riferimento all’art. 10, comma 4-bis, [l.n. 146 del 1998]” (p. 20 del ricorso); “la CTR ha tentato di ovviare a tale lacuna – anche se non poteva né era in alcun modo suo compito – affermando che la giustificazione del disattendimento emergeva dalla grave anomalia derivante dal rapporto-costi ricavi”: anomalia tuttavia insussistente per le ragioni già evidenziate.
5.2. Il motivo è manifestamente infondato.
5.2.1 Esso, nuovamente, appunta le censure non già, “funditus”, sulla sentenza impugnata, ma, in principalità, sull’avviso di accertamento, al quale, irritualmente dedotto come oggetto del ricorso dinanzi a questa Suprema Corte, imputa la violazione dell’art. 10, comma 4-bis, l.n. 146 del 1998.
Sotto altro profilo, la critica in tal guisa svolta contro l’avviso concerne l’omessa motivazione dello stesso circa le ragioni del disattendimento delle risultanze dello studio di settore, ma l’allegata “mancanza di circostanze diverse da quelle considerate dallo studio di settore […] per fondare l’avviso” incorre in aspecificità, non essendo neppure riprodotta la parte rilevante della motivazione dell’avviso medesimo.
5.2.2 D’altronde, anche a prescindere da ciò, corretta è la decisione nel merito espressa dalla CTR laddove sottolinea, da un lato, che non era precluso all’Amministrazione – come del resto riconosciuto dallo stesso ricorrente – di procedere comunque ad accertamento e, dall’altro, che l’antieconomicità di gestione, allo stesso modo in cui inficia l’attendibilità di una contabilità formalmente regolare, legittimando per l’effetto l’accertamento (Sez. 5, n. 22185 del 14/10/2020, Rv. 659081-01), parimenti mina l’attitudine dimostrativa, in favore del contribuente, di una solo formale congruità rispetto allo studio di settore (cfr., specificamente, in argomento, Sez. 5, n. 20060 del 24/09/2014, Rv. 632351-01, secondo cui gli studi di settore costituiscono, come si evince dall’art. 62-sexies d.l.n. n. 331 del 1993, convertito in l. n. 427 del 1993, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente: tale accertamento, infatti, può essere presuntivamente condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere, quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e dalla conformità alle stesse dei ricavi aziendali dichiarati).
6. Con il quinto – “recte”, sesto – motivo (p. 22 del ricorso) si denuncia violazione dell’art. 112 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.
6.1 Deduce il ricorrente che, con riferimento “all’eccezione sull’erroneità della sanzione di euro 1.032,00 per ‘irregolare tenuta delle scritture contabili”‘, “l’accertamento muove la contestazione esclusivamente in base a presunzioni, come quella relativa al numero delle vestagliette, che si sono rivelate inconsistenti, come la CTR ha di fatto ammesso”. Tale eccezione non ha trovato risposta nella sentenza impugnata.
6.2 Il motivo è nammissibile.
Il ricorrente non indica di aver devoluto la questione alla CTR nei termini dedotti con l’atto di appello, che neppure richiama anche solo mediante semplice indicazione del motivo o della pagina di riferimento, perciò incorrendo in difetto di specificità.
Inoltre, indipendentemente da ciò, questa Suprema Corte ha già avuto modo di affermare che “il vizio d’omessa pronuncia, configurabile allorché manchi completamente il provvedimento del giudice indispensabile· per la soluzione del caso concreto, deve essere escluso, pur in assenza di una specifica argomentazione, in relazione ad una questione implicitamente o esplicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza” (Sez. L, n. 1360 del 26/01/2016, Rv. 638317-01). Analogamente si insegna che “non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione” (cfr. da ultimo Sez. 3, n. 24953 del 06/11/2020, Rv. 659772-01). Sotto altro profilo, “poiché il vizio di omessa pronuncia si concreta nel difetto del momento decisorio, per integrare detto vizio occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano‘ autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti. Per contro, il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti integra un vizio di natura diversa, relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio” (Sez. 6-L, n. 5730 del 03/03/2020, Rv. 657560-01).
Nella specie, emerge chiaramente dal complessivo tenore della sentenza impugnata che la CTR si è implicitamente pronunciata anche sulle sanzioni: invero, l’aver ritenuto corretta, quantomeno in parte, la ripresa di per sé comporta la dovutezza anche delle sanzioni.
7. In definitiva, il ricorso va integralmente rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo secondo Tariffa, seguono la soccombenza.
Sussistono i presupposti per dichiarare il ricorrente tenuto al pagamento del doppio contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alle spese del presente grado di giudizio, liquidate in euro 4.100,00, oltre a spese prenotate a debito.
Dichiara il ricorrente tenuto al pagamento del doppio contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002.
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