Corte di Cassazione ordinanza n. 20612 del 28 giugno 2022
regime del margine – presupposti – adempimenti – omissioni ed inesattezze – indagini bancarie e presunzione legale relative in favore dell’erario
Fatti di causa
Con avvisi di accertamento, afferenti gli anni 2006, 2007 e 2008, venivano recuperati nei confronti di Stefano Marchi, esercente l’attività di commercio di orologi e gioielleria, i maggiori importi dovuti a titolo di Irpef e Irap, tenuto conto dei più alti ricavi appurati e del più elevato valore della produzione, nonché le maggiori somme dovute a titolo di Iva, in ragione di operazioni imponibili non dichiarate.
La CTP di Ravenna, riuniti i ricorsi avverso i tre avvisi di accertamento correlati ai distinti anni d’imposta, accoglieva parzialmente il ricorso del contribuente, riducendo i valori accertati di un importo pari a Euro 30.000 annui per spese familiari, riconoscendo, altresì, il costo di componenti negativi nella produzione del reddito pari a circa 1’80% dei ricavi accertati e reputando, infine, le operazioni di commercio di orologi usati effettuate per conto del collezionista Craig Emerson soggette al regime IVA del margine.
La CTR dell’Emilia Romagna accoglieva l’appello del contribuente limitatamente ad un motivo di censura, rettificando al ribasso la base imponibile, mediante l’espunzione di euro 21.425,31, somma adoperata per un acquisto online; accoglieva, invece, in toto l’appello incidentale dell’Agenzia, confermando gli avvisi di accertamento per gli anni 2007 e 2008 e disponendo la limitata riduzione dei valori accertati ai fini Irpef e Irap per l’importo or ora rammentato, in relazione all’anno 2006.
Il contribuente affida il proprio ricorso per cassazione a sette motivi. L’Agenzia delle entrate è rimasta intimata. Resiste Unipol Assicurazioni s.p.a. con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso si contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 7, d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 51, comma 2, n. 7, d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 7 I. n. 212 del 2000, dell’art. 3 I. n. 241 del 1990 nonché “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Si censura la carenza della motivazione del provvedimento autorizzativo delle indagini bancarie, che non sarebbe stato “messo a disposizione e tantomeno allegato”, al pari della richiesta di indagini bancarie asseritamente formulata dall’organo ispettivo. Tali profili sarebbero stati obliterati dalla sentenza d’appello, ancorché specificamente dedotti.
Il motivo è infondato, sia sotto il profilo della violazione addotta, sia sotto
l’aspetto dell’adombrato deficit di motivazione.
Giova semplicemente ribadire l’orientamento già espresso da questa Corte secondo cui: “In tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione necessaria agli Uffici per l’espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall’indicazione dei motivi, non solo perché in relazione ad essa la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, ma anche in quanto la medesima, nonostante il “nomen iuris” adottato, esplica una funzione organizzativa, incidente solo nei rapporti tra uffici, ed ha natura di atto meramente preparatorio, con la conseguenza che non è qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali è previsto, rispettivamente, dall’art. 3, comma 1, della I. n. 241 del 1990 e dall’art. 7 della I. n. 212 del 2000, un obbligo di motivazione” (Cass. n. 19564 del 2018; Cass. n. 14026 del 2012).
Con il secondo motivo di ricorso viene denunciata la violazione degli artt. 32, 39, 41 d.P.R. n. 600 del 1973 nonché del principio di capacità contributiva ex artt. 3 e 53 Cost. e degli artt. 2727, 2728, 2729 e.e. ed, altresì, l”‘omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Si censura la sentenza impugnata in quanto, accogliendo l’impugnazione incidentale dell’Agenzia, non avrebbe riconosciuto l’incidenza dei costi nella determinazione del maggior reddito accertato, né avrebbe considerato che parte dei prelievi in denaro erano serviti per il mantenimento del ricorrente e della famiglia.
Il motivo è infondato.
Anche in questo caso è sufficiente richiamare l’avviso nomofilattico che, in contrasto con la rappresentazione del contribuente, rileva: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito di impresa, l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 fonda una presunzione relativa circa la natura di ricavi sia dei prelevamenti sia dei versamenti su conto corrente, superabile attraverso la prova, da parte del contribuente, che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; pertanto, in virtù della disposta inversione dell’onere della prova, grava sul contribuente l’onere di superare la suddetta presunzione (relativa) dimostrando la sussistenza di specifici costi e oneri deducibili, che dev’essere fondata su concreti elementi di prova e non già su presunzioni o affermazioni di carattere generale o sul mero richiamo all’equità” (Cass. n. 15161 del 2020; Cass. n. 16896 del 2014).
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 nonché l”‘omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per avere la CTR trascurato di considerare le giustificazioni addotte dal contribuente in ordine ai prelevamenti effettuati.
Il motivo è infondato.
La CTR ha valorizzato la presunzione ex lege contemplata dalla norma che si assume violata e ha ritenuto non analitica la prova fornita dal contribuente, secondo il proprio prudente apprezzamento. In tal senso, si è allineata all’indirizzo nomofilattico a mente del quale “In tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 e.e. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze” (Cass. n. 13112 del 2020; Cass. n. 10480 del 2018).
Con il quarto motivo di ricorso, rinumerato a p. 27 del ricorso sub 3), la ricorrente adduce nuovamente la violazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e l'”omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, stavolta per aver negato la CTR l’applicabilità del regime del margine, sebbene ve ne fossero i presupposti.
Il motivo è infondato.
La CTR si è attenuta in parte qua all’orientamento sedimentato di questa Corte. Il d.l. n. 41 del 1995, agli artt. da 36 a 40-bis disciplina organicamente, ai fini IVA, il commercio di beni mobili usati. La normativa in parola ha introdotto, in ottemperanza a specifica direttiva comunitaria, un regime speciale di applicazione dell’IVA, detto anche “regime del margine”, allo scopo di evitare fenomeni di doppia o reiterata imposizione per i beni mobili che, dopo la prima uscita dal circuito commerciale, vengono successivamente ceduti ad un soggetto passivo d’imposta che intende rivenderli; siffatto regime ha fondamentalmente lo scopo di evitare che un bene, già colpito dall’imposta (perché ad esempio giunto al consumatore finale), nel momento in cui viene venduto di nuovo, venga tassato nuovamente, con una reiterazione dell’imposta contrastante con i principi fondamentali del tributo; il margine su cui applicare l’imposta è, in tal caso, ordinariamente costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto dell’usato e quello di vendita; conseguentemente la relativa imposta non è detraibile.
Ciò precisato, va rilevato che per condiviso principio di questa Corte, in tema di IVA, l’applicazione del regime del margine di utile costituisce un regime impositivo speciale e derogatorio rispetto a quello ordinario. Ne consegue che, tutte le volte in cui la contestazione dell’Amministrazione trovi fondamento in elementi oggettivi, l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’operatività di tale regime di deroga incombe sul contribuente-cessionario, il quale è tenuto a verificare preventivamente la regolarità sostanziale dell’operazione, pure con riferimento alla mancata detrazione dell’IVA corrisposta a monte da parte del cedente, nei limiti imposti dal dovere di agire con la diligenza richiesta in base alle concrete circostanze, anche in relazione alla sua qualità professionale, ove trattasi di operatore commerciale del settore, ed alla stregua dei documenti negoziali in suo possesso, conformemente al principio di vicinanza al fatto oggetto di prova ed al sistema del diritto comunitario (Cass. n. 15219 del 2012; in termini anche Cass. n. 2227 del 2011) comporta l’inapplicabilità del regime “de quo”, indipendentemente dalla consapevolezza che di essa abbia avuto il cessionario, potendo eventualmente tale difetto di consapevolezza incidere soltanto sull’aspetto sanzionatorio.
Alla stregua dei predetti principi va, pertanto, ritenuto, contrariamente a
quanto sostenuto dal ricorrente, che, relativamente all’IVA, il regime del margine sia speciale e derogatorio rispetto a quello normale, e che presupponga una serie di adempimenti da rispettare a carico del contribuente, in mancanza dei quali risulta impossibile procedere al calcolo dell’IVA come richiesto dalle predette disposizioni di legge. In particolare, va rilevato che l’art. 38, comma 5 (che il ricorrente intende porre a fondamento della decisione), in base al quale le omissioni o le inesattezze nelle annotazioni nei registri comportano solo l’applicazione di specifiche sanzioni ma non determinano la non applicabilità del regime del margine, si riferisce appunto solo ed esclusivamente ad omissioni o inesattezze, e non invece alla totale mancanza dei registri e delle scritture contabili; siffatta mancanza, verificatasi nel caso di specie, non può che comportare, come detto, la non applicabilità del regime del margine, non consentendo infatti detta mancanza il controllo – da parte dell’Agenzia – dei presupposti fissati per l’applicazione (in particolare la mancata detrazione dell’IVA all’acquisto da parte del cedente) (v. Cass. n. 17232 del 2013; Cass. n. 15219 del 2012).
Con il quinto motivo, numerato 4), si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la CTR omesso di considerare che l’attività svolta dal ricorrente nel periodo 2005/2006, precedente all’apertura della partita IVA, è stata svolta privatamente.
La motivazione non scende al di sotto della soglia del “minimo costituzionale”. La CTR ha, infatti, puntualmente enucleato e valorizzato gli elementi a sostegno della decisione assunta. Come chiarito da questa Corte “In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cast., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali” (Cass. n. 7090 del 2022; Cass. n. 22598 del 2018). Sotto le mentite spoglie del deficit di motivazione si tende ad ottenere, in realtà, attraverso il mezzo di ricorso una rivisitazione del merito della controversia.
Con il sesto motivo, rubricato 5), si adduce la violazione degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 446 del 1997 e l”‘omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra la parti”, per avere la CTR trascurato di considerare la questione dell’autonoma organizzazione produttiva, costituente presupposto per l’applicazione dell’Irap.
Il motivo è infondato.
La CTR ha accertato che i valori di fatturato dei primi nove mesi del 2006 testimoniavano la continuità e professionalità dell’attività, sebbene non fosse stata ancora aperta la partita IVA.
In tal senso, il giudice d’appello non ha affatto tralasciato l’accertamento sui presupposti applicativi dell’Irap. Al riguardo, va d’altronde, ricordato che l’esercizio dell’attività di piccolo imprenditore è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l”‘id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente, che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dare la prova dell’assenza delle predette condizioni (Cass. n. 21123 del 2010; Cass. n. 26161 del 2011; Cass. n. 4490 del 2012; Cass. n. 21326 del 2013; Cass. n. 2589 del 2014).
Con il settimo motivo si contesta la violazione degli artt. 36, 37, 38 d.l. n. 41 del 1995, conv. con I. n. 85 del 1995 nonché l”‘omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Con la censura il ricorrente torna sulla ritenuta non applicabilità del regime del margine, censurando la sentenza d’appello nella parte in cui ha escluso l’operatività del regime in parola in relazione alle “compravendite di orologi usati che il ricorrente ha eseguito a favore del collezionista Craig Emmerson nell’anno 2006, prima dell’inizio dell’attività imprenditoriale e come semplice appassionato di orologeria”, posto che in tal caso “l’art. 38 del d.l. n. 41/1995 non richiede la tenuta del registro”.
Il motivo è infondato.
La CTR ha accertato con apprezzamento di merito insindacabile la professionalità del segmento di attività additato con il mezzo di ricorso.
Giova soggiungere che, secondo quanto sopra chiarito, per l’applicazione del regime del margine occorre la tenuta del registro. Più in dettaglio, relativamente all’IVA, il regime del margine è speciale e derogatorio rispetto a quello normale, e postula una serie di adempimenti da rispettare a carico del contribuente, in mancanza dei quali risulta impossibile procedere al calcolo dell’IVA. In particolare, l’art. 38, comma 5 (che il ricorrente intende porre a fondamento della decisione), in base al quale le omissioni o le inesattezze nelle annotazioni nei registri comportano solo l’applicazione di specifiche sanzioni ma non determinano la non applicabilità del regime del margine, si riferisce appunto solo ed esclusivamente ad omissioni o inesattezze, e non invece alla totale mancanza dei registri e delle scritture contabili; siffatta mancanza, verificatasi nel caso di specie, non può che comportare, come detto, la non applicabilità del regime del margine, non consentendo infatti detta mancanza il controllo – da parte dell’Agenzia – dei presupposti fissati per l’applicazione (in particolare la mancata detrazione dell’IVA all’acquisto da parte del cedente) (v. Cass. n. 17232 del 2013; Cass. n. 15219 del 2012).
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Le spese sono regolate dalla soccombenza con riferimento alla controricorrente UnipolSai Assicurazione s.p.a.
Per questi motivi
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore di UnipolSai Assicurazioni s.p.a. delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 17.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma l-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma l-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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