Corte di Cassazione ordinanza n. 21163 depositata il 5 luglio 2022
contraddittorio endoprocedimentale – prova presuntiva
Fatti di Causa
La vicenda giudiziaria trae origine da avviso di accertamento, n.T9D031Ao6850/2012, originato da indagini svolte dal nucleo operativo della G. DI F. di Torino, ed emesso nei confronti della società C. spa . Con tale avviso, essendo state individuate una serie di fatture annotate in contabilità per operazioni inesistenti , era rimodulata la pretesa fiscale nei confronti della società contribuente ai fini Ires, Irap, ed Iva , per l’anno 2007 oltre interessi e sanzioni . Tale avviso di accertamento era impugnato dalla società intimata, la quale deduceva la violazione dell’art. 12 comma 7 L. 212/2000, la carenza probatoria circa le circostanze poste dalla Agenzia a base della rimodulazione della pretesa fiscale, ed il difetto di motivazione.
La CTP, confermava l’accertamento impugnato, escludendo che v1 fosse stata la violazione dell’art. 12 comma 7 dello statuto del contribuente.
A seguito di appello da parte della soc. C. spa la CTR Lombardia confermava la sentenza di primo grado .
Proponeva ricorso in Cassazione la soc. intimata affidandosi a 4 motivi. Si costituiva con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 comma 1 lett. d dpr n. 600/1973 e dell’art. 54 dpr n. 633/1972b nonché dell’art. 2697 cc in combinato disposto in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc. Con tale motivo la ricorrente sostanzialmente deduce che la Ctr era incorsa in una palese violazione del principio della ripartizione dell’onere della prova, non essendo stata in alcun modo data la prova della falsità delle fatture anche alla luce dei documenti prodotti.
Con il secondo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1 lett. d. dpr n. 600/73 e dell’art. 54 dpr n. 633/72 e degli art. 2727, 2729 cc in combinato disposto in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc .Con tale motivo la società sostiene dia ver comunque dato la prova della realtà delle prestazioni, a seguito di deposito di una serie di documenti che rappresentavano il contenuto delle prestazioni svolte e descritte nelle fatture.
Tali motivi, esaminati congiuntamente stante la loro intima connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
La censura è inammissibile, con particolare riguardo al primo motivo, perché non congruente col contenuto della decisione.
Diversamente da quanto ivi sostenuto, difatti, secondo cui “i giudici di appello…affermano il principio per cui sarebbe sufficiente per l’Ufficio impositore contestare (non provare) l’oggettiva o soggettiva inesistenza delle operazioni documentate dalle fatture di acquisto utilizzate dal contribuente per attribuire allo stesso contribuente l’onere di fornire la prova documentale dell’effettività oggettiva e soggettiva delle operazioni fatturate …”, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha valutato gli elementi di prova forniti, che ha ritenuto adeguati. Difatti, ha sottolineato il giudice d’appello, “la circostanza che R.M. e V.G. abbiano ammesso i fatti anche penalmente rilevanti” può fondare, come in effetti ha fondato, la decisione del giudice tributario.
Quindi, la Commissione tributaria regionale, lungi dal contentarsi
della mera contestazione dell’Agenzia, come sostiene la contribuente, ha ritenuto provata la pretesa impositiva mediante le suddette dichiarazioni.
Alla luce di queste statuizioni, infondata è la censura proposta col secondo motivo, col quale si fa leva su una diversa lettura delle risultanze documentali concernenti pur sempre le fatture rispettivamente emesse dalla CM di R.M. e dalla CG di V.G., ossia dai soggetti le dichiarazioni dei quali sono state valorizzate dal giudice d’appello in senso opposto.
Al riguardo, giova precisare che, in tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti, com’è appunto avvenuto nel caso in esame, nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (Cass. n. 9054/22).
In realtà la censura maschera la deduzione di un vizio di motivazione,
comunque inammissibile a fronte della doppia conforme avutasi nei gradi di merito.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 comma 2 e dell’art. 12 comma 7 della legge n. 212 del 2000 degli art. 32 dpr n60/73 e 51. Del dpr n. 633/1972 in combinato disposto in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc .
Con tale motivo la società deduce il mancato rispetto della disposizione di cui all’art. 12 comma 7 L. 212/200 che riconosce al contribuente il diritto al contraddittorio prima della emissione dell’atto di accertamento.
Il motivo è infondato.
La ricorrente non allega, difatti, né a maggior ragione documenta che si sia verificato il presupposto di applicazione dell’art. 12, comma 7, della 1. n. 212/00, ossia che vi sia stato accesso, ispezione o verifica presso la sede sociale. Anzi, al contrario: essa riconosce che l’accertamento è scaturito da una richiesta di documentazione avvenuta mediante invio di questionario, e che, quindi, si sia trattato di un accertamento a tavolino.
In caso di accertamento a tavolino, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, non v’è necessità d’instaurare il contraddittorio in relazione alle imposte dirette e all’irap, come stabilito dalle sezioni unite di questa Corte (con sentenza n. 24823/15), secondo cui, differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’ amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito.
Quanto all’iva, tributo armonizzato, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto. Nel caso come si è visto ciò non è avvenuto: basti la considerazione che la ricorrente ha fondato la sua difesa sugli stessi documenti già consegnati alla Agenzia a seguito di richieste espresse della stessa.
In ogni caso il contraddittorio comunque c’è stato, in quanto, come la stessa società riferisce nella narrativa del ricorso, l’Agenzia delle entrate ha prima richiesto documentazione contabile relativa al rapporti intrattenuti dalla società contribuente per il 2007 con le imprese CO.R.MA e CG e successivamente anche documentazione integrativa. Va, al riguardo, condiviso il principio già espresso da questa Corte, secondo cui, in tema di accertamento fiscale, l’invio del questionario da parte dell’Amministrazione finanziaria, previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 4, per fornire dati, notizie e chiarimenti, assolve alla funzione di assicurare – in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria – un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, sì da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, (Cass., da ultimo, 22126/2013).
Con il quarto motivo la ricorrente deduce che l’atto di accertamento era nullo per mancanza della qualifica in capo al delegato e cioè violazione e falsa applicazione dell’art. 42 comma terzo del Dpr n. 600/1973. La parte assume che tale difetto possa essere rilevato anche di ufficio .
Il motivo è inammissibile.
Questa Corte ha già rilevato (Cass. n. 22810/15; n. 19929/20) che, in tema di contenzioso tributario, è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si denunci un vizio dell’atto impugnato diverso da quelli originariamente allegati, censurando, altresì, l’omesso rilievo d’ufficio della nullità, atteso che nel giudizio tributario, in conseguenza della sua struttura impugnatoria, opera il principio generale di conversione dei motivi di nullità dell’atto tributario m motivi di gravame, sicché l’invalidità non può essere rilevata di ufficio, né può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità (in applicazione di tale principio è stato dichiarato inammissibile il ricorso, con cui si è dedotta la nullità dei gradi di merito e delle relative pronunce per effetto, appunto, della sentenza della Corte cost. n. 37 del 2015, non essendo stata rilevata d’ufficio la nullità degli atti impositivi per carenza di potere del sottoscrittore). Non v’è quindi materia di rimessione nei termini.
Pertanto il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza .
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 5600 , oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del dpr 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.