CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 dicembre 2018, n. 32494
Società in liquidazione – Licenziamento collettivo – Vizio nella comunicazione alle oo.ss.
Fatti di causa
1.1. Con sentenza n. 3519/2016 la Corte di appello di Roma, decidendo sul reclamo proposto ai sensi della I. n. 92/2012 da M. Di G., D. G., L. L., G. M., S. S. nei confronti della I. H. s.r.l., in liquidazione (già D. I. H. s.r.l.), società svolgente attività di produzione, sviluppo, stampa, montaggio, commercializzazione e distribuzione di pellicole cinematografiche con due laboratori siti in Fonte Nuova e negli Studios di Cinecittà di via Tuscolana (quest’ultimo acquisito dalla società C. D. F. s.r.l. a seguito di affitto di ramo d’azienda), in riforma della pronuncia del Tribunale di Tivoli, dichiarava risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento intimato ai suddetti nell’ambito di una procedura ex I. n. 223/1991 e condannava la società la pagamento in favore dei ricorrenti di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata in 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, per Di G., in 10 mensilità per gli altri litisconsorti (così in dispositivo).
1.2. Riteneva la Corte territoriale che nella procedura di licenziamento collettivo oggetto di esame non sussistessero gli indici rivelatori di una frode alla legge o di negozi giuridici determinati da motivo illecito; concordava con il giudice di prime cure in ordine alla liceità e non sindacabilità della scelta imprenditoriale di dismettere l’attività produttiva presso il laboratorio di Fonte Nuova, destinato alla completa chiusura; considerava incontroverso che il personale licenziato risultasse essere stato individuato nella totalità dei dipendenti addetti allo stabilimento di Fonte Nuova e non dunque sulla base di un criterio di scelta arbitrario; valutava che l’intervenuta cessazione totale dell’attività in ragione sia della chiusura dello stabilimento di Fonte Nuova sia della retrocessione al concedente dello stabilimento di Cinecittà con messa in liquidazione della società precludesse la possibilità di disporre la reintegrazione; riteneva che vi fosse un vizio nella comunicazione alle oo.ss. ai sensi dell’art. 4, co. 3, I. n. 223/1991 atteso che nella stessa non erano specificate le ragioni per quali la situazione di esubero del personale si concentrasse nel solo stabilimento di Fonte Nuova rispetto all’altro di Cinecittà e che ciò non aveva consentito alle rappresentanze sindacali una corretta interlocuzione; escludeva l’applicabilità della tutela reintegratoria.
2. Per la cassazione della sentenza ricorre il solo S. S. con due motivi.
3. La IT H. s.r.l., in liquidazione, resiste con controricorso e formula ricorso incidentale affidato ad un motivo cui S. S. resiste con controricorso
4. Il ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.1. Ragioni di ordine logico impongono l’esame prioritario del ricorso incidentale.
1.2. Con l’unico motivo la società ricorrente incidentale denuncia omesso esame circa fatti decisivi che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto sussistente un vizio nella comunicazione ex artt. 4 e 24 della L. n. 223/1991 e sostiene che tale comunicazione contenesse tutti i requisiti e le informazioni prescritti dall’art. 4, co. 3, I. 223/1991 ivi incluse le ragioni produttive organizzative alla base della scelta aziendale di delimitare gli esuberi al personale dello stabilimento di Fonte Nuova.
1.3. Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato.
Non vi è stato alcun omesso esame a termini del nuovo art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
Semmai andava censurata l’interpretazione della comunicazione come fatta propria dalla Corte territoriale indicando i criteri di legge eventualmente violati, ma tanto non è avvenuto.
Il ricorrente incidentale si limita ad opporre a quella dei giudici di appello una propria differente lettura di tale comunicazione, operazione, questa, inammissibile in sede di legittimità.
In ogni caso il vulnus informativo posto dalla Corte territoriale a base della propria decisione è chiaramente evincibile dal contenuto della comunicazione in questione (trascritto nella stessa sentenza impugnata) non evincendosi dalla stessa le ragioni per le quali l’azienda avesse incluso nella procedura di mobilità il solo personale dello stabilimento di Fonte Nuova.
In tale modo effettivamente le oo.ss. non erano state poste in condizione di avere contezza di siffatte ragioni e di interloquire sull’argomento, non potendo ritenersi che una piena consapevolezza delle successive scelte aziendali derivasse dal carattere temporaneo della gestione del ramo d’azienda relativo allo stabilimento di Cinecittà, non essendo affatto la retrocessione evento inevitabile alla scadenza del contratto di affitto.
2.1. Con il primo motivo di ricorso principale S. S. denuncia omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Censura la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sulla domanda di reintegrazione sul presupposto che non vi fosse stata alcuna violazione dei criteri di scelta. Rileva che, nella specie, non vi era stata alcuna cessazione dell’attività che, per la parte che si svolgeva presso lo stabilimento di Cinecittà, era stata retrocessa al concedente ed era perciò proseguita. Se, del resto, le oo.ss. non avevano potuto interloquire proprio su tale scelta (far continuare l’attività presso uno stabilimento e sacrificarne un altro) per carenze della comunicazione ex art. 4, co. 3, non potevano ritenersi rispettati i criteri di individuazione dei lavoratori da licenziare valutati con riguardo al solo stabilimento di Fonte Nuova.
2.2. Il motivo non è fondato.
Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le Sezioni Unite di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno innanzitutto notato che con essa è stato assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di «minimo costituzionale», ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.
Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 cod. proc. civ..
Sempre secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).
Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ. anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti.
A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
L’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il “tassello mancante” (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.
Nella specie, però, non vi è stato alcun vizio nel sillogismo giudiziario che ha consentito alla Corte territoriale di giungere alla conclusione contrastata dal ricorrente.
Ed infatti, nella prospettazione del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe tratto conseguenze, asseritamente erronee, dall’accertata violazione degli obblighi di comunicazione alle oo.ss. come se tra detto accertamento e le conclusioni vi fosse stato uno iato del tutto illogico.
Ad avviso del ricorrente tale carenza informativa, avendo inevitabili ripercussioni sulla valutazione della correttezza dell’applicazione dei criteri di scelta del personale da licenziare, avrebbe dovuto comportare necessariamente la reintegra nel posto di lavoro e non la mera tutela risarcitoria.
La motivazione della sentenza impugnata si è, però, sviluppata su un altro piano.
Ed infatti è stata considerata ostativa ad una reintegra nel posto di lavoro la sopravvenuta totale cessazione di ogni attività da parte della società che, dopo aver chiuso lo stabilimento di Fonte Nuova (gennaio-marzo 2013), aveva successivamente, con la cessazione dell’affitto del ramo d’azienda, retrocesso al concedente lo stabilimento di Cinecittà (25 marzo 2014) ed era stata posta in liquidazione (così si sono espressi, sul punto, i giudici capitolini:”Deve altresì premettersi in fatto che – incontrovertibilmente – la società reclamata ha cessato ogni attività ed è stata posta in liquidazione in quanto, oltre alla chiusura dello stabilimento di Fonte Nuova, è stato altresì retrocesso quello di Cinecittà”).
Come si rileva dalla sentenza impugnata, tale situazione fattuale, precludendo la possibilità di una reintegra, esimeva dall’esaminare – secondo un ordine di priorità logica in relazione alla domanda di più penetrante tutela – la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro avente come presupposto la violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della I. n. 223/1991.
Dunque non vi è stato alcun omesso esame della domanda di reintegrazione ma un ragionamento del tutto consequenziale rispetto alla premessa della ritenuta impossibilità di procedere alla reintegrazione, una volta cessata l’attività aziendale (affermazione questa, in via di principio, condivisa anche dalla giurisprudenza di questa Corte che ha ravvisato nella cessazione dell’attività una vera e propria causa impeditiva dell’ordine di reintegrazione con conseguente residuo diritto al solo risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa impeditiva – Cass. 15 novembre 1991, n. 12249; Cass. 6 agosto 1996, n. 7189; Cass. 28 agosto 2006, n. 18613; Cass. 7 giugno 2007, n. 13297; Cass. 22 dicembre 2008, n. 29936 -).
Né tale cessazione effettiva dell’attività da parte della I.T. H. s.r.l. è idoneamente contrastata dal ricorrente che si limita ad affermare che al momento del licenziamento del S. la retrocessione non fosse ancora avvenuta (dato questo irrilevante atteso che ai fini della reintegra la sussistenza di un’azienda attiva va verificata al momento della pronuncia giudiziale) e che in ogni caso il concedente con la retrocessione avesse continuato a svolgere la stessa attività (dato questo egualmente irrilevante essendo stata la reintegra richiesta solo nei confronti della I.T. H. che aveva cessato ogni attività).
D’altra parte questa Corte ha affermato che la reintegrazione nel posto di lavoro può essere disposta dal giudice nei confronti di una società in liquidazione ma solo allorché non venga provata la cessazione definitiva dell’attività e l’azzeramento effettivo dell’organico del personale (v. Cass. 7 febbraio 2011 n. 2883; Cass. 26 febbraio 2015 n. 3922, Cass. 19 giugno 2018, n. 16136).
Nella specie, la cessazione definitiva dell’attività da parte della società (che aveva dapprima dismesso lo stabilimento di Fonte Nuova con licenziamento di tutti i dipendenti ivi addetti e poi retrocesso alla proprietaria l’altro stabilimento di Cinecittà con tutti i dipendenti ivi addetti ed era stata, quindi, sciolta e posta in liquidazione) ha formato oggetto di accertamento da parte del giudice di merito che non può essere sindacato in questa sede di legittimità.
Né, infine, il ricorrente pone la questione se nella specie fosse più favorevole il risarcimento riconoscibile dal momento del licenziamento (28 marzo 2013) fino alla totale cessazione dell’attività (25 marzo 2014) rispetto all’indennità risarcitoria onnicomprensiva liquidata dalla Corte territoriale.
3.1. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 I. n. 223/1991 in relazione all’art. 18 I. n. 300/1970 e all’art. 2112 cod. civ. e art. 47 I. n. 428/1990. Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che il vizio nella comunicazione ex art. 4, co. 3, non determinasse anche una violazione del successivo art. 5.
Deduce il ricorrente che vi fosse una omogeneità di mansioni tra gli addetti allo stabilimento di Fonte Nuova e quello di Cinecittà oltre che una omogeneità dell’attività svolta presso le due realtà produttive che assume costituissero un unicum della stessa azienda.
Rileva che parte del personale già addetto allo stabilimento di Fonte Nuova era stato ‘salvatò dalla procedura di licenziamento con un trasferimento presso quello di Cinecittà durante la fase inoltrata della procedura e che passaggio di personale confermerebbe la fungibilità delle mansioni.
3.2. Il motivo è infondato per quanto già evidenziato al precedente punto sub 2.2.
Se pure il dedotto vizio di comunicazione avesse avuto riflessi sui criteri di scelta, il ricorrente, come dalla Corte territoriale ritenuto in sentenza, non avrebbe potuto ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro per l’intervenuta cessazione di ogni attività da parte della I. H. s.r.l..
Peraltro la questione del reimpiego presso lo stabilimento di Cinecittà non risulta esser stata posta nelle precedenti fasi di merito e comunque, per far valere tale ragione, il ricorrente avrebbe dovuto convenire in giudizio anche la società cui il ramo d’azienda era stato retroceduto, cosa che nella specie non è avvenuta.
Si aggiunga che neppure è chiarito se effettivamente fosse stato dimostrato in corso di causa il dedotto passaggio di dipendenti dall’uno stabilimento all’altro.
4. Dalle esposte considerazioni deriva che vanno rigettati sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale.
5. L’esito dei ricorsi costituisce motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
6. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 poiché l’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (cosi Cass. Sez. Un. n. 22035/2014).
P.Q.M.
Rigetta entrambi i ricorsi; compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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