CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 marzo 2018, n. 6162
Illegittimità del licenziamento – Reintegra nel posto di lavoro – Ricorso inammissibile – Violazione di norme di diritto – Mancata indicazione nella specie delle norme violate
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 523\10, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato allo S. dalla s.r.l. H.B. il 14.4.08 e con effetti al 2.10.08 (causa malattia), con ordine di reintegra nel posto di lavoro e condanna al risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite dal dì del licenziamento a quello della reintegra, oltre al pagamento di €. 3.974,76 per differenze retributive. Proponeva appello la società, resisteva lo S..
Con sentenza depositata il 2.4.15, la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza impugnata nel resto confermata, dichiarava inammissibile la domanda di reintegra nel posto di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso lo S., affidato ad unico motivo.
Resiste la società con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato ad unico motivo, poi illustrato con memoria.
Motivi della decisione
1. – Il ricorrente principale denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
Lamenta che la corte partenopea ritenne erroneamente essersi formato un giudicato, derivante dal rigetto dell’opposizione a d.i., richiesto ed ottenuto dal lavoratore il 4.12.08, con cui venne intimato alla società il pagamento del t.f.r., presupponente la risoluzione del rapporto di lavoro.
Il motivo è inammissibile alla luce del novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. invocato, in quanto la sentenza impugnata ha ampiamente esaminato il fatto decisivo lamentato. Anche a voler intendere la doglianza come violazione di norme di diritto, il ricorrente non indica quali siano nella specie le norme violate dalla corte partenopea. Il ricorrente non chiarisce in particolare la ragione per cui il giudicato in questione non era ostativo alla reintegra nel posto di lavoro, limitandosi a dedurre e documentare che il t.f.r. richiesto atteneva ad un periodo precedente l’effettiva risoluzione del rapporto. Ora anche a voler prescindere dalla circostanza che tali deduzioni siano state o meno ritualmente devolute e documentate dinanzi al giudice di appello, che nulla dice al riguardo (restando così il ricorrente gravato del relativo onere probatorio, evidentemente non assolto da taluni pur riportati brani della fase monitoria), resta il fatto che lo S. non censura esplicitamente il principio, affermato dalla sentenza impugnata, per cui il passaggio in giudicato del d.i. inerente l’intimazione del pagamento del t.f.r. preclude la richiesta di reintegra nel posto di lavoro, rendendo in definitiva inammissibile la censura così come formulata.
2. – Col ricorso incidentale la società denuncia la violazione degli artt. 4 e 5 L. n. 223\91, nonché degli artt. 1175, 2095 e 2103 c.c. e dell’art. 96 disp. att. c.c.
Si duole in sostanza della confermata illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 5 L. n. 223\91 applicato in via analogica, sulla base, peraltro, delle mansioni effettivamente svolte e non dei profili professionali di cui all’art. 4 L. n. 223\91. La sentenza impugnata aveva infatti ritenuto che al fine della scelta del dipendente da licenziare, occorresse far riferimento alle mansioni svolte.
Il ricorso incidentale è infondato.
Premesso che nella specie trattasi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, conseguente la dedotta soppressione del posto di facchino, mansione svolta dallo S. insieme ad altri, occorre evidenziare che la sentenza impugnata ha solo utilizzato, al fine di valutare il rispetto dei canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei contratti (che impone al datore di lavoro di chiarire perché la scelta sia ricaduta, a parità di mansioni, solo sul dipendente licenziato, cfr., ex aliis, Cass. n. 7046\11) il criterio di cui all’art. 5 L. n. 223\91, come sovente ritenuto da questa Corte (Cass. n. 13058/03, Cass. n. 25192/16).
Le doglianze dirette a censurare la violazione di altre norme della ridetta L. n. 223\91 (ed in particolare la lettera del suo art. 4) non colgono peraltro nel segno, dovendosi valutare le ragioni per cui, la dedotta soppressione del posto di lavoro (concretato dallo svolgimento di una determinata mansione -nella specie addetto ai piani e facchino – e non dal possesso di un certo profilo professionale, peraltro neppure dedotto), svolta anche da altri dipendenti, abbia comportato il licenziamento dello S., più anziano di altri colleghi facchini. Circa l’accertamento dello svolgimento assolutamente prevalente di tale mansione da parte del lavoratore, la doglianza finisce per censurare inammissibilmente un (approfondito) esame della circostanza da parte del giudice di merito nel regime di cui al novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.
3. – Il ricorso principale deve pertanto dichiararsi inammissibile ed il ricorso incidentale rigettato.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta l’incidentale. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso (principale/incidentale), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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