CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 giugno 2018, n. 16250
Compensazione tra quanto spettante al lavoratore a titolo di tfr e quanto dovuto alla società per plurime condotte di appropriazione di denaro – Somme accertate sulla base di risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio – Consulenza che verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare – Consulenza dei fatti ovvero “percipiente” – Fonte oggettiva di prova
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1333/2012, depositata il 3 dicembre 2012, la Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza del Tribunale di Arezzo, condannava B. B. al pagamento, in favore di S.-c. S.p.A., della somma di euro 729.965,22, ritenuta la compensazione tra quanto alla stessa spettante a titolo di trattamento di fine rapporto e quanto dovuto alla società in conseguenza di plurime condotte di appropriazione di denaro commesse negli anni 2002-2007, allorquando la stessa era stata addetta alla contabilità aziendale, condotte che la Corte riteneva accertate sulla base delle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio svolta nel giudizio di reclamo cautelare e di vari elementi di natura indiziaria, fra cui l’improvviso ed ingiustificato abbandono del posto di lavoro e altri anomali comportamenti assunti nell’immediatezza della scoperta della prima irregolarità contabile, secondo quanto emerso dalle dichiarazioni di altri dipendenti della società.
2. Avverso tale sentenza ha proposto un primo ricorso la B., con cinque motivi, notificato a S.-c. S.p.A., poi sostituito da un successivo ricorso a Silba-car s.r.l. in liquidazione, anch’esso affidato a cinque motivi e di identico contenuto.
3. Quest’ultima ha resistito con controricorso.
4. Risulta depositata memoria ex art. 378 cod. proc. civ. nell’interesse della ricorrente.
Ragioni della decisione
1. I ricorsi devono essere preliminarmente riuniti, in quanto proposti nei confronti della medesima sentenza della Corte di appello di Firenze n. 1333/2012.
2. Il primo ricorso è improcedibile, risultando diretto contro un soggetto (la Silba-car 5. p.A.) non più esistente.
3. Quanto al secondo ricorso, notificato a Silba-car S.r.l. in liquidazione, se ne deve, in primo luogo, rilevare l’ammissibilità.
3.1. Come più volte precisato da questa Corte, in forza del principio di consumazione dell’impugnazione, la parte che abbia già proposto ricorso per cassazione può proporne un altro, in pendenza del termine per impugnare, solo quando il primo ricorso sia viziato ed il successivo miri a sostituire il precedente, dovendo altrimenti il secondo ricorso essere considerato inammissibile (cfr., tra le numerose conformi, Cass. n. 8306/2011).
3.2. Il ricorso in esame risulta presentato per la notifica (alla Silba-car S.r.l. in liquidazione) in data 22 marzo 2013 e, pertanto, ancora in pendenza del termine breve per l’impugnazione, essendo la notifica della sentenza avvenuta il 30 gennaio 2013.
4. Ciò premesso, si rileva che, con il primo motivo, deducendo la violazione dell’art. 2697 cod. civ., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere utilizzato la consulenza tecnica d’ufficio come strumento di acquisizione della prova e per finalità esplorative, in contrasto con la natura propria del mezzo istruttorio e con le regole di riparto dell’onere probatorio, non avendo la società datrice di lavoro fornito alcun riscontro circa eventuali responsabilità della propria dipendente.
5. Con il secondo, la ricorrente, deducendo vizio di motivazione, censura la sentenza per avere omesso l’esame di un fatto decisivo e cioè che la consulenza tecnica d’ufficio, alle cui risultanze era stata attribuita la valenza di unico elemento di prova della colpevolezza della lavoratrice, aveva effettuato una ricostruzione meramente contabile, che aveva bensì descritto numerose e diverse anomalie nella tenuta della contabilità aziendale, ma non aveva evidenziato ammanchi di cassa di alcun genere, né le aveva attribuito la responsabilità di alcuna specifica appropriazione.
6. Con il terzo, deducendo la violazione dell’art. 2729, primo comma, cod. civ., in tema di valutazione delle presunzioni (art. 360 n. 3), la ricorrente si duole che la sentenza abbia ritenuto di fondare la pronuncia di condanna su elementi di natura indiziaria, peraltro in assenza dei requisiti di “gravità”, “precisione” e “concordanza” richiesti dalla norma per la legittimità del ragionamento presuntivo.
7. Con il quarto, la ricorrente denuncia l’insufficiente o comunque illogica motivazione della sentenza nella valutazione degli elementi presuntivi, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., essendosi la Corte limitata ad enunciare i comportamenti “indizianti” della lavoratrice senza, tuttavia, motivare sulle massime di esperienza che avrebbe utilizzato per trarre da essi l’esistenza del fatto ignoto.
8. Con il quinto, infine, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2697 cod. civ. per avere la Corte disposto la compensazione fra il credito per t.f.r. della lavoratrice e la somma richiesta dalla società, pur emergendo dalla consulenza tecnica d’ufficio che nulla era dovuto a quest’ultima.
9. Il ricorso deve essere respinto.
10. Quanto al primo motivo, deve ribadirsi l’orientamento, secondo il quale, in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione “percipiente”, quando essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone (Cass. n. 1190/2015; conforme Cass. n. 20695/2013).
10.1. Né la ricorrente ha dedotto che la consulenza tecnica d’ufficio fosse stata disposta nel difetto di idonee allegazioni in fatto da parte della società, così da non poter trovare ingresso né in sede cautelare, né in sede di merito, affermando per la sua ammissibilità la preliminare esistenza di un corredo probatorio (nella specie, quanto meno di una perizia stragiudiziale contabile, dalla quale emergessero gli ammanchi contestati) e cioè richiedendo una condizione non necessaria perché possa farsi ricorso ad un mezzo istruttorio volto alla ricerca e all’accertamento dei fatti (e non alla loro mera valutazione).
10.2. Come, infatti, ripetutamente precisato, il giudice può affidare al consulente d’ufficio non soltanto l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (c.d. consulenza “deducente”) ma anche quello di accertare i fatti stessi (c.d. consulenza “percipiente”): in tal caso, in cui la consulenza tecnica costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova, è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (cfr., in tal senso, Cass. n. 3990/2006 e successive numerose conformi).
11. Il secondo motivo è infondato.
11.1. Premesso, infatti, che la Corte ha fondato “la ragionevole certezza della sussistenza dei fatti materiali oggetto di accertamento” sulla base non soltanto della indagine peritale ma di un più ampio e articolato compendio probatorio, costituito anche dalle dichiarazioni rese dalla lavoratrice nel corso dell’interrogatorio libero e dagli esiti dell’attività istruttoria svolta sia in sede civile che penale (cfr. sentenza impugnata, pp. 3, 4 e 6), è da rilevare come il fatto che la dipendente si sia effettivamente appropriata delle somme non entrate nelle casse della società ha formato oggetto di specifico esame da parte del giudice di appello, il quale, pertanto, si è conformato al principio di diritto ancora di recente ribadito da Cass. n. 23238/2017 (ord.), nel solco tracciato da Sez. U n. 8053 e n. 8054 del 2014, per il quale l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012 (conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012), introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, ossia idoneo a determinare un esito diverso della controversia.
11.2. In particolare, la Corte territoriale, nel motivare il proprio diverso convincimento rispetto al primo giudice, ha sottolineato, alla luce di una complessiva considerazione delle risultanze dell’indagine peritale e delle dichiarazioni testimoniali, come fosse proprio la contabilità alterata (certamente) dalla lavoratrice a “firmare” l’appropriazione da parte sua, tenuto conto della massima fiducia e autonomia di cui la stessa godeva nello svolgimento delle proprie mansioni (p. 4), del fatto che nessun rilievo di evasione fiscale era stato mosso dall’Amministrazione finanziaria a carico dei titolari della società (p. 5), e che comunque quanto sostenuto sul punto dalla lavoratrice era rimasto del tutto privo di dimostrazione (pp. 3, 6), del fatto che risultava invece positivamente acquisita la prova di anomali comportamenti assunti dalla B. nell’immediatezza della scoperta della prima irregolarità e nei giorni successivi, aventi valore sostanzialmente confessorio (cfr. ancora sentenza, p. 6): circostanze tutte che, nella ricostruzione operata dalla Corte di appello, andavano coerentemente a saldarsi con le risultanze della consulenza d’ufficio, la quale aveva descritto e analizzato gli artifici posti in essere dalla B. in qualità di addetta alla tenuta della contabilità aziendale e concluso nel senso che l’omesso inserimento di alcuni incassi nel registro di prima nota aveva fatto sì che le relative somme non affluissero tra gli incassi effettivi della giornata.
12. Parimenti infondato risulta il terzo motivo.
12.1. Al riguardo, si osserva che la valutazione della idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit ha come criterio-guida, alla stregua di consolidato orientamento, il principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza che il giudice di merito, a cui compete tale valutazione, debba omettere un apprezzamento frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale (cfr. da ultimo, fra le molte conformi, Cass. n. 12002/2017).
12.2. Il motivo in esame muove, invece, in palese contrasto con tale orientamento, da una considerazione “atomistica” dei singoli elementi di carattere indiziario indicati nella sentenza, sollecitando a questa Corte, nell’ambito della denunciata violazione di norme di diritto con riferimento all’art. 2729, Io comma, cod. civ., il parcellizzato controllo, per ciascuno di essi, della sussistenza dei requisiti di legge.
13. Il quarto motivo è inammissibile, posto che, in tema di presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 cod. civ., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Cass. n. 19485/2017).
14. Il quinto motivo risulta anch’esso inammissibile, risolvendosi in una censura di merito relativamente alla sussistenza del credito risarcitorio della società, credito che, nella tesi della ricorrente, sarebbe escluso dalla consulenza d’ufficio e che, pertanto, la Corte di appello avrebbe infondatamente riconosciuto, di conseguenza procedendo ad una compensazione (con il credito per t.f.r.), di cui non ricorrevano i presupposti, anziché pronunciare la condanna della società al pagamento del corrispondente importo.
15. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Riuniti i ricorsi, dichiara improcedibile il primo ricorso; rigetta il secondo; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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