CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 luglio 2019, n. 20725
Rapporto di lavoro – Cessione di ramo d’azienda – Interposizione di manodopera – Illegittimità – Accertamento
Fatti di causa
Con sentenza del 20 maggio 2014, la Corte d’appello di Trieste rigettava l’appello di T. Italia s.p.a. avverso la sentenza di primo grado che l’aveva condannata al pagamento della somma di € 119.878,61, in favore di E. O. a titolo di retribuzioni pari a € 38.561,42 maturate dal 2 febbraio 2010 al 31 febbraio 2011 (periodo successivo ad altro immediatamente precedente per cui la stessa aveva agito con separato giudizio per le retribuzioni fino ad allora maturate, al cui pagamento la società era stata parimenti condannata dal Tribunale di Trieste con sentenza 2 febbraio 2010, confermata dalla Corte territoriale con sentenza 10 maggio 2013, impugnata per cassazione) e di premi previsti dalla contrattazione aziendale oltre alle retribuzioni maturate fino alla pronuncia della sentenza, sulla base di quella del Tribunale di Trieste n. 627/06 di nullità della cessione di ramo d’azienda da T. Italia s.p.a. a Telepost s.p.a., di persistenza del suo rapporto di lavoro e di condanna della datrice cedente al suo ripristino.
A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva il diritto della lavoratrice di agire sulla base del pregresso rapporto di lavoro con T. Italia s.p.a., ripristinato dalla citata sentenza ma non per il suo effetto costitutivo, così escludendo un rapporto di “sinallagmaticità” (e pertanto la necessità di attesa di formazione del giudicato) fra i capi di accertamento di nullità del trasferimento di ramo d’azienda (nel quale E. O. lavorava) e di condanna della datrice ad accettarne la prestazione dell’attività lavorativa pagandone la retribuzione corrispettiva.
Essa affermava trattarsi, non tanto di dare esecuzione a detta sentenza, quanto di verificarne l’idoneità all’instaurazione dalla lavoratrice di un separato giudizio di determinazione del proprio credito e di condanna al relativo pagamento: così ravvisando la pertinenza di un’eventuale sospensione facoltativa di questo giudizio, a norma dell’art. 337 c.p.c., esclusa dal primo giudice e nelle more essendo la sentenza presupposta passata in giudicato (per effetto della sentenza di questa Corte n. 90/2011).
Essa ribadiva quindi la valida costituzione in mora crederteli della società datrice per l’offerta dalla lavoratrice, con lettera 22 novèmbre 2006, della propria prestazione rifiutata senza giustificazione dalla società, in assenza di impedimento né di fatto né giuridico da parte della prima, che aveva continuato a lavorare alle dipendenze della cessionaria del ramo d’azienda fino al licenziamento intimatole il 7 novembre 2008. Con atto notificato il 19 novembre 2014, la società datrice ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la lavoratrice resisteva con controricorso.
La causa era quindi rimessa dalla trattazione in ordinanza camerale, non ricorrendone i presupposti ai sensi dell’art. 380 bis ultimo comma c.p.c., all’odierna pubblica udienza; la lavoratrice comunicava memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per error in procedendo e dell’art. 337 c.p.c., per inconferenza del richiamo dalla Corte territoriale della seconda norma denunciata, non vertendo la questione sul decisum della sentenza di accertamento della (il)legittimità della cessione del ramo d’azienda, né sulla sua natura, in quanto piuttosto antecedente logico e giuridico delle pretese della lavoratrice, senza peraltro avere la Corte affrontato il nodo decisivo della sussistenza o meno di un rapporto di lavoro tra le parti e della sua fonte.
2. Con il secondo, ella deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 282, 337, 431 c.p.c., per il carattere non provvisoriamente esecutivo della sentenza, in quanto non di condanna ad una prestazione pecuniaria, per cui sola un tale effetto è stabilito, con la conseguente insussistenza di alcun obbligo della società datrice prima della formazione del giudicato.
3. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1218, 1362, 1372, 2094, 2112, 2126, 2697 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo, per erronea assunzione di costituzione della società datrice in mora credendi, a seguito di offerta dalla lavoratrice della propria prestazione, in realtà non validamente eseguita, avendo ella lavorato alle dipendenze della società cessionaria, essendone regolarmente retribuita ed avendo persino impugnato il licenziamento intimatole; dovendo poi essere correttamente ricostruiti gli effetti di una tale costituzione, di natura risarcitoria e non retributiva, in assenza del presupposto di un’effettiva prestazione lavorativa, per la natura sinallagmatica del contratto di lavoro e la corrispettività delle prestazioni, neppure ricorrendo i presupposti (di esistenza di un contratto di lavoro ancorché invalido) per un rapporto con la cessionaria del ramo d’azienda qualificabile a norma dell’art. 2Ì26 c.c.
4. I primi due motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati.
4.1. Premessa l’inconferenza della denuncia (peraltro nella sola rubrica senza alcuno sviluppo argomentativo) di violazione dell’art. 112 c.p.c., pure insussistente, secondo consolidato orientamento di questa Corte (recentemente ribadito da: Cass. 25 giugno 2018, n. 16694), secondo cui, prima ancora del passaggio in giudicato, qualsiasi pronuncia giurisdizionale è dotata di propria autorità, dato che la sentenza esplica un’efficacia di accertamento al di fuori del processo. La stabilità della sentenza impugnata, anche se provvisoria, costituisce naturale proprietà dell’atto giurisdizionale, che esprime la volontà della legge nel caso concreto, e con questa l’esigenza di una sua immediata, anche se provvisoria, attuazione, nell’attesa del formarsi del giudicato ed indipendentemente da questo (Cass. 26 luglio 2004, n. 14060). Quanto al rapporto tra i procedimenti di accertamento del diritto e del quantum conseguente, se pur pendenti contemporaneamente davanti a due giudici diversi, in gradi differenti, già è stato pure affermato che sussiste solo un rapporto di pregiudizialità in senso logico, e non anche in senso tecnico-giuridico, sicché non ricorre un’ipotesi di sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., essendo eventualmente applicabile l’art. 337, secondo comma c.p.c., che, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, ne prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa, con esclusione del rischio di un conflitto di giudicati in quanto, a norma dell’art. 336, secondo comma c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione di quella sul quantum (Cass. 21 febbraio 2017, n. 4442).
4.2. La Corte territoriale ha correttamente applicato i suenunciati principi di diritto, illustrandone in modo adeguato le ragioni (in particolare al primo capoverso di pg. 7 della sentenza), come già fatto dalla stessa Corte territoriale nella medesima vicenda tra le parti, in riferimento a pretese retributive riguardanti un periodo anteriore, con sentenza confermata da questa Corte (Cass. 25 giugno 2018, n. 16694, citata).
5. Anche il terzo motivo è infondato.
5.1. In linea generale, occorre premettere che, per comprensibili ragioni di. diversa coercibilità, la disciplina della mora del creditore differenzia le obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni fungibili da quelle relative a prestazioni infungibili (cui evidentemente appartengono quelle inerenti la prestazione di lavoro).
Sicché, per le prime la costituzione in mora credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con .sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711).
Per le seconde, l’adempimento della prestazione di fare deve invece essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore, bastando invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.: integrando insindacabile valutazione di merito l’accertamento della necessità della collaborazione del creditore, affinché il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare (Cass. 12 luglio 1968, n. 2474).
Dai principi di diritto su enunciati discende allora, siccome coerente precipitato logicogiuridico, che, mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari.
5.2. Da quel momento, avendo la Corte territoriale accertato la valida costituzione in mora di T. Italia s.p.a. da parte della lavoratrice, con l’offerta della propria prestazione lavorativa con le lettere specificamente indicate (raccomandate del 22 novembre 2006, ribadite con quelle del 15 dicembre 2006, del 2 marzo 2007 e del 20 novembre 2008: così al penultimo capoverso di pg. 8 della sentenza), l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale(va) a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.
Né tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (Cass. 8 aprile 2019, n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi.
5.3. Infine, deve essere ribadito, per convinta adesione, il principio recentemente affermato da questa Corte, secondo cui: “in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni a decorrere dalla messa in mora” (Cass. s.u. 7 febbraio 2018, n. 2990).
Come noto, ad esso è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda.
5.4. A tanto deve arrestarsi l’odierna pronuncia, in assenza nel caso di specie di alcuna allegazione in ordine alla percezione di emolumenti dalla lavoratrice nel periodo (di causa) dal 2 febbraio 2010 al 31 febbraio 2011.
In proposito, infatti, la società ricorrente si è limitata ad un’affermazione di tenore assolutamente astratto: “Si chiede invece che da una condotta della lavoratrice – anche in ipotesi imposta dall’atteggiamento della T. – non scaturiscano conseguenze inique, come lucrare una doppia retribuzione” (alla fine del secondo capoverso di pg. 11 del ricorso), del tutto irrilevante ai fini di concreta detraibilità di un aliunde perceptum.
6. Dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.