CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 23323 depositata il 1° agosto 2023
Tributi – Plusvalenza – Doppie imposizioni – Utili – Quote di partecipazione – Istanza di rimborso – Regime PEX – Dividendi – Rigetto
Fatti di causa
La R.P. S.n.c. (di seguito: la “Società”), holding di partecipazioni residente in Francia, priva di stabile organizzazione in Italia, cedeva, nell’anno 2011, la propria partecipazione nella società italiana R.I. S.p.A., registrando una plusvalenza imponibile di Euro 4.280.232,00.
Poiché la Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia prevede che gli utili derivanti dall’alienazione di azioni o di quote relative ad una partecipazione – c.d. importante – nel capitale di società residente in uno Stato sono imponibili in detto Stato (quindi, nella specie, in Italia), la Società presentava dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2011 esponendo la suddetta plusvalenza e versando la relativa imposta. Successivamente la Società formulava istanza di rimborso assumendo che la normativa tributaria che regola l’imposizione delle plusvalenze derivante dall’alienazione di partecipazioni in capo a soggetti non residenti privi di stabile organizzazione si poneva in contrasto con gli artt. 49 e 63 del T.F.U.E.
Contro il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso, la Società proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano. La ricorrente denunciava la disparità di trattamento tra soggetti residenti o non residenti con stabile organizzazione in Italia e soggetti non residenti privi di stabile organizzazione in Italia. Ciò in quanto soltanto per i primi l’art. 87 tuir. prevede l’applicazione del regime di esenzione del 95 per cento delle plusvalenze realizzate in relazione alla cessione di una partecipazione (regime PEX), mentre per i secondi il combinato disposto degli artt. 152 comma 2, e 68, comma 3, tuir prevede un’esenzione inferiore che, nell’anno di realizzazione della plusvalenza (2011), era pari al 50,28 per cento. Tale disparità di trattamento, secondo la Società, era incompatibile con la libertà di stabilimento e la libertà di circolazione dei capitali sancite dagli artt. 49 e 63 T.F.U.E. Chiedeva pertanto di applicare il regime di esenzione di cui all’art. 87 tuir. – possedendo la contribuente tutti i requisiti previsti dalla norma – alla plusvalenza realizzata e di condannare l’Ufficio alla restituzione della maggiore imposta versata.
La commissione tributaria adita accoglieva il ricorso e la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava la decisione di primo grado.
Avverso la suddetta sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.
La Società resiste con controricorso e deposita memoria.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso.
1.1. Sostiene la controricorrente che l’Agenzia delle entrate non ha impugnato la sentenza della CTR con riferimento al capo in cui ha rilevato, come eccepito nelle controdeduzioni, la mancanza di specifici motivi di impugnazione, con conseguente inammissibilità del ricorso per carenza di interesse.
L’eccezione è infondata.
Invero, la carenza di valide argomentazioni addotte dall’Ufficio al fine di contestare la decisione di primo grado, rilevata dalla CTR, concerne profili attinenti al merito della controversia e si pone, pertanto, su un piano differente rispetto al dedotto difetto di specificità dell’appello ex D.Lgs. n. 546 del 1996, art. 53, il quale involge la questione, di ordine processuale, dell’ammissibilità del gravame.
1.2. Deduce, inoltre, la controricorrente che la CTR aveva riconosciuto che la normativa interna si poneva in contrasto sia con la libertà di circolazione dei capitali di cui all’art. 63 del T.F.U.E., sia con il principio di libertà di stabilimento di cui all’art. 49 del T.F.U.E. Ciò nonostante l’Agenzia delle entrate aveva impugnato solo la statuizione relativa all’art. 63 del T.F.U.E., con la conseguenza che il ricorso si palesava inammissibile per carenza di interesse.
L’eccezione va disattesa, essendo la ratio decidendi della pronuncia impugnata fondata sulla ritenuta incompatibilità della normativa interna con l’art. 63 del T.F.U.E., in conformità delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di giustizia C-540/07 in tema di libera circolazione dei capitali.
1.3. Del pari destituita di fondamento è l’eccezione di inammissibilità del ricorso per asserita carenza di specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata, come reso evidente dalle deduzioni formulate dall’Agenzia delle entrate a sostegno del motivo di impugnazione, infra sinteticamente riportate.
2. Con unico mezzo l’Agenzia delle entrate denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 63 e 65 del T.F.U.E. nonché dell’art. 13, par. 4 del protocollo 8, lettera b), e dell’art. 24 della Convenzione tra Italia e Francia contro le doppie imposizioni.
Premesso che la pronuncia della Corte di giustizia nella causa C-540/07 relativa ai dividendi non può trovare applicazione in materia di plusvalenze in quanto non ricorre la medesima ratio, deduce la ricorrente che la Convenzione stipulata tra Italia e Francia (protocollo 8, lettera b) prevede che gli utili derivanti dall’alienazione di azioni o di quote facenti parte di una partecipazione importante – ossia tale da conferire diritto ad almeno il 25 per cento degli utili della società – nel capitale di una società residente di uno Stato sono imponibili in detto Stato, secondo le disposizioni della sua legislazione interna. Tale disposizione, a differenza di quasi tutte le convenzioni che si conformano al Modello OCSE, non utilizza la locuzione “sono imponibili soltanto in detto Stato”; ciò può determinare un effetto di doppia imposizione perché gli stessi cespiti divengono contemporaneamente imponibili da parte di entrambi gli Stati contraenti. Per ovviare a tale situazione, l’art. 24 della Convenzione dispone che “Gli utili e gli altri redditi (revenus positifs) che provengono dall’Italia e che sono ivi imponibili conformemente alle disposizioni della Convenzione, sono parimenti imponibili in Francia allorché sono ricevuti da un residente della Francia. L’imposta italiana non è deducibile ai fini del calcolo del reddito imponibile in Francia. Ma il beneficiario ha diritto ad un credito di imposta nei confronti dell’imposta francese nella cui base detti redditi sono inclusi”.
Osserva, quindi, la difesa erariale che la società francese ha potuto disporre, nella misura dell’imposta sulle plusvalenze cui è stata assoggettata in Italia, di una corrispondente riduzione delle imposte francesi. Pertanto, una disparità di trattamento in danno della contribuente potrebbe essersi verificata solo ove si dimostrasse – ma la relativa indagine è del tutto mancata nella fase di merito – che la società francese non abbia potuto recuperare la maggiore imposta scontata in Italia attraverso il credito d’imposta.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. Questa Corte (Cass. n. 12138 del 2019) ha osservato che la disciplina della cessione delle partecipazioni è stata assimilata a quella dei dividendi societari, anche se a differenza dei primi, per i quali il beneficio è generalizzato, per le plusvalenze il beneficio (riconoscimento della PEX nella misura del 95 per cento) vale solo per le imprese “meritevoli”, in presenza delle quattro condizioni di cui all’art. 87 tuir. Si è sottolineato, quindi, che è stata prevista l’irrilevanza reddituale dei dividendi distribuiti e l’esenzione delle plusvalenze realizzate in occasione della cessione delle partecipazioni, pur se in presenza di determinati e specifici requisiti. In tal modo sono parzialmente esclusi i dividendi distribuiti ai soci (nella misura del 95 per cento), così come sono considerate esenti le plusvalenze da cessioni di partecipazioni (nella misura del 95 per cento), con indeducibilità delle minusvalenze e dei relativi costi.
Si è evidenziato, inoltre, che la riforma fiscale di cui alla legge delega 80/2003 persegue le finalità di armonizzare il nostro sistema fiscale con quello degli altri Paesi membri dell’Unione Europea, eliminando lo svantaggio competitivo delle imprese residenti, ed anche quello di incentivare i trasferimenti di complessi aziendali con la cessione delle partecipazioni societarie, in alternativa alla cessione diretta, quest’ultima scoraggiata con l’abrogazione dell’imposta sostitutiva del 19 per cento. La presenza di tale ulteriore finalità non elide ovviamente la prima. La riforma, quindi, muove dall’intento di tassare il reddito esclusivamente presso il soggetto che lo ha realmente prodotto, con l’esclusione da imposizione dei dividendi, se non in minima percentuale, spostando il baricentro del prelievo dal socio all’impresa (dividendi) e dalla cedente alla partecipata ceduta, considerando fiscalmente neutre tutte le manifestazioni reddituali successive alla produzione di tali redditi.
Anche la dottrina ha evidenziato che il regime di “esenzione” delle plusvalenze e il regime di “esclusione” dei dividendi rispondono alla medesima ratio che è quella di evitare la doppia imposizione economica, avendo come presupposto l’assunto che la tassazione del socio duplicherebbe la tassazione del reddito della società partecipata, la diversa terminologia riflettendo il diverso regime di deducibilità dei costi connessi.
La stessa Agenzia delle entrate (circolare 4 agosto 2004 n. 36) ha ritenuto che “il regime di esenzione delle plusvalenze e la parziale esclusione da imposizione dei dividendi rappresentano due aspetti della riforma del sistema fiscale, tra loro funzionalmente connessi. La detassazione delle plusvalenze da realizzo di partecipazioni costituisce il logico corollario del nuovo regime di tassazione dei dividendi, che sono parzialmente esclusi da imposizione, siano essi di fonte nazionale ovvero estera (con l’eccezione degli utili derivanti da società residenti nei cd. paradisi fiscali)”.
Alla stregua di tali considerazioni, nella disciplina che prevede l’esclusione da imposizione dei dividendi e in quella che prevede l’esenzione delle plusvalenze deve ravvisarsi la medesima ratio, e cioè la necessità di evitare una doppia imposizione economica del medesimo flusso reddituale.
2.3. Con riferimento al profilo di censura concernente la possibilità per la società contribuente di recuperare l’imposta versata in Italia con un credito di imposta in Francia, eliminando così il rischio di doppia imposizione, l’Agenzia delle entrate sostiene che nel giudizio di merito non è stata svolta alcuna indagine al riguardo. L’assunto risulta tuttavia smentito dall’accertamento in fatto operato sul punto dalla CTR, secondo cui la società contribuente ha dimostrato “di non aver goduto in Francia di compensativo credito fiscale” (pag. 5 della sentenza impugnata).
Si osserva, comunque, che questa Corte ha più volte affermato, in tema di dividendi, che l’eliminazione della disparità di trattamento tra società percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane si pone su di un piano diverso rispetto a quello della eliminazione della doppia imposizione, tanto che la stipulazione, da parte dello Stato membro, di una convenzione finalizzata ad elidere, o quantomeno limitare, quest’ultimo fenomeno potrebbe lasciare integra la disparità di trattamento, allorquando la società percipiente in altro Stato membro non abbia modo di compensare in tale Stato l’imposta pagata in Italia a mezzo di ritenuta (cfr. Cass. n. 26377 del 2018; Cass. nn. 1967 e 23130 del 2020; Cass. nn. 13845, 13846, 13847 e 13848 del 2021; Cass. n. 5152 del 2022; Cass. n. 13884 del 2023).
Invero, la stipulazione ed il contenuto di una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni non comporta necessariamente la compatibilità del sistema tributario nazionale con i principi espressi dal T.F.U.E. in materia di libera circolazione dei capitali, sicché il conseguente obbligo di verifica in materia (e quello, eventualmente conseguente, di ricorrere all’interpretazione adeguatrice della norma pattizia), gravante sul giudice nazionale, non può essere sostanzialmente vanificato attraverso l’applicazione di una presunzione di conformità del regime convenzionale al Trattato, che non ha alcun fondamento, né legale, né logico-giuridico.
3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Risultando soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 13.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.