Corte di Cassazione sentenza n. 32144 depositata il 31 ottobre 2022 

Revocazione ordinanza cassazione – giudicato interno ed esterno – L’errore revocatorio, previsto dall’art. 395, n. 4 cod. proc. civ., deve essere un errore di percezione e deve avere rilevanza decisiva. In quanto errore di percezione, e non errore di diritto, esso deve consistere nella erronea supposizione dell’esistenza di un fatto, o della sua inesistenza, che, dal confronto con gli atti e i documenti della causa risulti escluso in modo incontrovertibile

FATTI DI CAUSA

1. I.S. s.r.l., propone ricorso per la revocazione, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, primo comma, « n. 4 e/o n. 5 » , cod. proc. civ., dell’ordinanza della Corte Suprema di Cassazione n. 1977/2020, depositata in data 29 gennaio 2020, che ha rigettato il ricorso della stessa contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che aveva respinto il ricorso della contribuente avverso l’avviso d’accertamento, relativo all’anno d’imposta 2005, che traeva origine da un’indagine ispettiva della Guardia di finanza, nel corso della quale veniva rilevato che la stessa contribuente, avente sede nella Repubblica Ceca, aveva omesso di dichiarare i redditi d’impresa conseguiti attraverso una stabile organizzazione societaria nello Stato italiano.

2. L’Agenzia delle entrate si è costituita in questo procedimento al solo fine della partecipazione all’udienza di discussione, alla quale non è comparsa.

3. Il Sostituto Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo di accogliere il ricorso per revocazione.

4. La ricorrente ha prodotto memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il ricorso per revocazione, la contribuente deduce che l’ordinanza impugnata sarebbe viziata ai sensi degli artt. 395, primo comma, « n. 4 e/o 5 » e 391-bis cod. proc. civ.

Rileva la ricorrente che il primo motivo di ricorso per cassazione, proposto dalla contribuente e dichiarato inammissibile dall’ordinanza qui impugnata, afferiva all’assenza di legittimazione sostanziale in capo alla contribuente, con riferimento alla pretesa impositiva azionata dall’Ufficio per il periodo di imposta 2005, in quanto la società era stata costituita soltanto tre anni dopo, ovvero l’8 ottobre 2008. Aggiunge la stessa ricorrente che nella memoria che aveva depositato nel giudizio di legittimità «era stato fatto valere il giudicato esterno formatosi sul punto (successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione) a seguito della mancata impugnazione da parte dell’Ufficio della sentenza n. 3376/2014 relativa agli anni 2006 e 2007 pronunciata il 19 giugno 2014 dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano e depositata il 23 giugno 2014.Tale ultima sentenza aveva infatti confermato l’assenza di legittimazione della società per i periodi d’imposta anteriori al 2008.». Premesso che relativamente ai periodi d’imposta oggetto della sentenza passata in giudicato (2006 e 2007) e quello della controversia decisa dalla Corte (2005) si discuteva, tra le stesse parti, della medesima questione (l’impossibilità di considerare esistente una stabile organizzazione in capo alla società prima della costituzione di quest’ultima), la ricorrente assume l’efficacia di giudicato esterno della sentenza de qua, allegata alla sua memoria del giudizio per cassazione, ma non presa in considerazione dalla ordinanza qui impugnata, della quale si chiede pertanto la revocazione.

2. Deve innanzitutto rilevarsi l’inammissibilità della denuncia proposta ai sensi dell’art. 395, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., che consente la revocazione « se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione».

Infatti, come questa Corte ha già chiarito, «Avverso le sentenze di mera legittimità della Corte di cassazione non è ammissibile l’impugnazione per revocazione per contrasto di giudicati, ai sensi dell’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., non essendo tale ipotesi espressamente contemplata nella disciplina anteriore al d.lgs. n. 40 del 2006 (applicabile nella specie), né in quella successiva (artt. 391 “bis” e 391 “ter” cod. proc. civ.), secondo una scelta discrezionale del legislatore – non in contrasto con alcun principio e norma costituzionale, atteso che il diritto di difesa e altri diritti costituzionalmente garantiti non risultano violati dalla disciplina delle condizioni e dei limiti entro i quali può essere fatto valere il giudicato, la cui stabilità rappresenta un valore costituzionale – condivisibile anche alla luce della circostanza che l’ammissibilità di tale impugnazione sarebbe logicamente e giuridicamente incompatibile con la natura delle sentenze di mera legittimità, che danno luogo solo al giudicato in senso formale e non a quello sostanziale” (Cass. Sez. U., 30/04/2008, n. 10867; conformi Cass. 29/12/2011, n. 29580; Cass. 27/10/2015, n. 21912; Cass., Sez. U., 23/11/2015, n. 23833).

Le deduzioni generiche della ricorrente circa una lettura “additiva” costituzionalmente orientata dell’art. 391-bis cod. proc. civ. non aggiungono argomenti idonei a concludere diversamente dal consolidato orientamento di legittimità appena riferito, che ha escluso anche l’ipotetico vulnus costituzionale.

3. Anche la denuncia proposta ai sensi degli artt. 391-bis e 395, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., è inammissibile, per plurimi motivi, ciascuno sufficiente alla relativa declaratoria.

Deve innanzitutto rilevarsi che, come il massimo consesso di questa Corte ha più volte affermato, l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza del giudicato non rileva quale errore di fatto ed è inidonea ad integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.

In questo senso si è infatti detto che: « Il giudicato, essendo destinato a fissare la “regola” del caso concreto, partecipa della natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche; pertanto gli eventuali errori di interpretazione del giudicato rilevano non quali errori di fatto, ma quali errori di diritto, inidonei, come tali, a integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, numero 4, cod. proc. civ.» (Cass., Sez. U, 02/04/2003, n. 5105).

Si è poi ribadito che « Il giudicato, sia esso interno od esterno, costituendo la “regola del caso concreto” partecipa della qualità dei comandi giuridici, di guisa che, come la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche, così l’erronea presupposizione della sua inesistenza, equivalendo ad ignoranza della “regula juris”, rileva non quale errore di fatto, ma quale errore di diritto, inidoneo, come tale, a integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, n. 4, essendo, in sostanza, assimilabile al vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca, invece, la sua diretta disciplina, e, quindi, ad una falsa applicazione di norma di diritto. (Nella fattispecie la S.C. ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione di sentenza della stessa Corte fondato sul preteso omesso rilievo di giudicato interno).» (Cass. Sez. U, 16/11/2004, n. 21639). Nello stesso senso, si è affermato che « Il giudicato, essendo destinato a fissare la “regola” del caso concreto, partecipa della natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche; pertanto l’erronea presupposizione dell’esistenza del giudicato, equivalendo ad ignoranza della “regula juris” rileva non quale errore di fatto, ma quale errore di diritto, risultando sostanzialmente assimilabile al vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca invece la sua diretta disciplina, inidoneo, come tale, a integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, numero 4, cod. proc. civ. (Fattispecie in tema di revocazione di sentenza della Corte di cassazione).» ( Cass., Sez. U, 17/11/2005, n. 23242).

I ripetuti conformi arresti delle Sezioni Unite di questa Corte hanno trovato un seguito coerente nella successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. 05/05/2017, n. 10930; Cass. 31/10/2019, n. 28138), alla quale si intende dare in questa sede ulteriore continuità, ritenendo pertanto inammissibile il ricorso per revocazione.

In ossequio all’art. 374 cod. proc. civ., riguardo all’orientamento delle Sezioni Unite, questo Collegio non ritiene infatti di poter fare applicazione, con riferimento al caso sub iudice, di quelle differenti determinazioni (invocate dalla ricorrente ed) emerse in isolate pronunce (Cass., 24/07/2015, n. 15608; conf. Cass. 01/09/2022, n. 25746), laddove – in disparte dalle diverse peculiarità dei casi concreti, nei quali non v’è totale coincidenza con la fattispecie processuale in esame – l’ordinanza revocanda non ha omesso l’esame della memoria della contribuente, della quale ha dato anzi atto nel

corpo della motivazione; il che, pur ivi non evidenziandosi l’eccezione di giudicato in essa dedotto, ha prodotto un effetto sostanziale non dissimile dal diniego implicito. A tal proposito si osserva – e ciò rileva pure quale ulteriore profilo d’inammissibilità – che, come risulta dall’esame diretto degli atti del giudizio a quo, alla memoria della contribuente, depositata il 25 settembre 2019, era allegata la sentenza n. 3376/6/2014 della CTR della Lombardia, in copia fotostatica, dalla quale non risultava la certificazione, ex art. 124 disp. att. cod. proc. civ., che avverso la medesima sentenza non era stata proposta impugnazione nei termini di legge.

Tale certificazione, rilasciata dal segretario della CTR della Lombardia e datata (come rilevato anche nelle conclusioni scritte del Procuratore Generale) 2 luglio 2020, risulta invece apposta in calce alla copia fotostatica della medesima sentenza allegata al giudizio di revocazione e presente in atti. La circostanza che la data («02/07/2020») dell’unica certificazione ex art. 124 disp. att. cod. proc. civ. in atti sia successiva sia alla data di deposito della memoria della contribuente nel giudizio di cassazione a quo, sia alla stessa data (29 gennaio 2020) di pubblicazione dell’ordinanza che si chiede di revocare, conferma inequivocabilmente che la medesima attestazione non esisteva nella pendenza del giudizio di legittimità concluso con il provvedimento revocando e non era stata pertanto già prodotta dalla contribuente in allegato alla memoria resa nel procedimento a quo.

Va allora ricordato che « La parte che eccepisce il giudicato esterno ha l’onere di fornirne la prova, non soltanto producendo la sentenza emessa in altro procedimento, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la stessa non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere che la mancata contestazione di controparte sull’affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, né che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità della sentenza.» (Cass. 02/03/2022, n. 6868).

Quindi « Affinché il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria» (Cass. 23/08/2018, n. 20974; conforme, ex multis, già Cass. 29/11/2017, n. 28515).

Nel caso di specie, quindi, in difetto della predetta certificazione, rilasciata solo dopo la pubblicazione dell’ordinanza revocanda, il giudicato esterno eccepito nella memoria non avrebbe potuto trovare ingresso e fare stato nel giudizio di legittimità, sicché il preteso errore, ove pure sussistente ed ammissibile, sarebbe comunque caduto su un fatto processuale non decisivo. Tanto premesso, secondo questa Corte, « L’errore di fatto di cui all’art. 395, numero 4, cod. proc. civ., idoneo a determinare la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice ad affermare l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, la cui sussistenza (o insussistenza) risulti invece in modo incontestabile dagli atti; e l’erronea percezione postula l’esistenza di un contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti rispettivamente l’una dalla sentenza impugnata, l’altra dagli atti processuali. Ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio allorché il ricorrente, nel chiedere la revocazione della sentenza, denunzi la falsità delle prove sulla cui base si è formata l’attività di giudizio.» ( Cass. 18/12/2001, n. 15979).

Dunque « L’errore revocatorio, previsto dall’art. 395, n. 4 cod. proc. civ., deve essere un errore di percezione e deve avere rilevanza decisiva. In quanto errore di percezione, e non errore di diritto, esso deve consistere nella erronea supposizione dell’esistenza di un fatto, o della sua inesistenza, che, dal confronto con gli atti e i documenti della causa risulti escluso in modo incontrovertibile. Non si è invece in presenza di un errore percettivo, ma eventualmente di un errore di giudizio, quando il fatto su cui l’errore è caduto ha costituito oggetto di decisione. Inoltre, per essere rilevante in sede di giudizio di revocazione, l’errore lamentato deve essere stato decisivo, ovvero la decisione deve fondarsi appunto sulla erronea supposizione.» ( Cass. 17/01/2003, n. 605; conformi, sulla necessaria decisività dell’errore revocatorio, ex multis Cass. 21/04/2006, n. 9396; Cass. 11/01/2018, n. 442; Cass. 30/05/2022, n. 17379 , cit.).

Va quindi rilevata l’inammissibilità del ricorso per revocazione anche sotto tale ulteriore profilo.

4. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 , se dovuto.