CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 38810 depositata il 22 agosto 2018
Reati tributari – Omesso versamento di ritenute certificate – Superamento della soglia di punibilità – Responsabilità del legale rappresentante della società – Precedente giurisprudenziale di assoluzione – Obbligo di applicazione ad annualità successive – Esclusione
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 10.7.2017 la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza in data 16.11.2016 del Tribunale della stessa città che aveva condannato alle pene di legge S.M. per il reato di cui all ‘art. 10-bis d. Lgs. 74/2000, perché, nella sua qualità di legale rappresentante della I.G. S.p.A., non aveva versato, in relazione all’anno d’imposta 2009, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per l’ammontare di € 293.406,00, superando il limite della soglia di € 50.000, in Milano il 20.8.2010.
2. L’imputato presenta quattro motivi di ricorso.
2.1. Con il primo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancanza di motivazione ed omesso esame di una prova decisiva con riferimento alla sentenza n. 12581/2016 del Tribunale di Milano, nonché la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione agli art. 24 Cost., 178 e 179 cod. proc. pen. Eccepisce che, in virtù della predetta sentenza di merito, passata in giudicato, era stato assolto per gli identici fatti relativi all’anno 2010 e che tale circostanza era stata adeguatamente illustrata nell’atto d’appello, ma non era stata esaminata dalla Corte territoriale; che il procedimento esitato nella citata sentenza aveva avuto ad oggetto i medesimi fatti, sebbene riferiti all’anno 2010, ed era stato caratterizzato dall’assunzione delle medesime testimonianze; che egli aveva tenuto le medesime condotte, perché aveva rateizzato il debito erariale, operazione non completata per il fallimento della società Imas in data 15.9.2016; che il Giudice che l’aveva assolto aveva ritenuto che, se pure il rischio d’impresa era stato consapevolmente e deliberatamente assunto, egli non aveva determinato la crisi né aveva compiuto una scelta arbitraria, perché aveva posto in essere tutti i tentativi necessari per arginarla e si era attivato per estinguere il debito tributario.
2.2. Con il secondo, lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancanza di motivazione ed omesso esame di una prova decisiva con riferimento ai bilanci della società. La Corte territoriale non aveva considerato che i bilanci 2009-2011 evidenziavano debiti in aumento, utili ridotti ed indisponibilità di liquidità, sicché la scelta di non saldare il debito IVA di € 300.000,00 era del tutto incolpevole.
2.3. Con il terzo motivo, censura la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all’art. 10-ter d. Lgs. 74/2000, nonché la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione all’art. 111, comma 6, Cost. e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. La Corte territoriale aveva omesso di prendere in considerazione che la mancanza di liquidità, pacificamente generatasi, non era sorta per causa a lui imputabile o inerente alla sua gestione, bensì era sorta per effetto dell’acquisto del ramo aziendale di una precedente società, la I.T. S.r.l., che aveva previsto l’accollo di una serie di passività, quali tutto il personale, le ferie, i permessi, il trattamento di fine rapporto liquidato e le buste paga non liquidate. I Giudici d’appello, da una parte avevano omesso la motivazione, perché avevano sostenuto che la tipologia dell’attività della società non poteva configurare una causa giustificativa dell’omesso pagamento dell’imposta, dall’altra parte, avevano distorto l’interpretazione dei fatti, concludendo per la sua responsabilità. Non avevano invece valutato l’assenza dell’elemento soggettivo, atteso che;a) gli istituti bancari interpellati gli avevano rifiutato di concedere il credito; b) aveva dovuto destinare tutta la liquidità disponibile alla copertura delle spese essenziali e necessarie per evitare la chiusura dell’attività, quali gli stipendi dei dipendenti ed i pagamenti dei fornitori; c) il pagamento dei fornitori aveva evitato l’istanza di fallimento e consentito la prosecuzione dell’attività per 7 anni con vantaggio per i dipendenti; d) la destinazione delle risorse economiche al pagamento dei dipendenti e fornitori aveva permesso all’azienda di mantenere la propria forza lavoro, tutta necessaria, evitando di far ricorso ad altre misure assistenziali, quali la cassa integrazione o l’indennità di disoccupazione che sarebbero state a carico dello Stato. Precisa che, anche dopo la cessazione dalla carica, si era adoperato per la rateizzazione del debito e che, solo il sopravvenuto fallimento, aveva comportato l’estinzione non integrale del debito: infatti, il teste P. all’udienza del 13.7.2017 aveva confermato l’esistenza di un credito IVA idoneo al saldo dell’importo residuo omesso. Ritiene l’inesigibilità soggettiva della condotta.
2.4. Con il quarto motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione alla mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. Enuncia i presupposti della sua applicazione.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1. Il ricorrente lamenta in primo luogo l’omessa motivazione da parte della Corte territoriale in ordine alla sentenza del Tribunale di Milano n. 12581/16, divenuta irrevocabile in data 16.2.2017, che aveva pronunciato la sua assoluzione dal medesimo reato per l’annualità 2010 per assenza dell’elemento psicologico. Di tale sentenza era stata fatta menzione nel ricorso in appello ed il documento era stato depositato in udienza. Sostiene che la Corte territoriale aveva violato il suo diritto di difesa, che i fatti erano gli stessi, che il compendio probatorio era stato lo stesso e che era assolutamente necessario uniformare le due pronunce, ingiustificatamente contrastanti, annullando con rinvio la sentenza impugnata.
Questo Collegio è di diverso avviso.
E’ vero che la sentenza impugnata in questa sede non ha menzionato il precedente giurisprudenziale di assoluzione per l’annualità 2010, ma non v’è un obbligo del giudice del gravame di prendere posizione su tutti gli elementi di giudizio sottoposti alla sua attenzione purché risponda in modo non manifestamente illogico o contraddittorio alle specifiche doglianze.
A ben leggere l’atto d’appello, il precedente favorevole non è invocato come autonomo motivo d’impugnazione, bensì inserito nel contesto del motivo sul difetto dell’elemento soggettivo per evidente e documentata crisi di liquidità. Sul tema la sentenza impugnata ha reso una motivazione ineccepibile perché, in adesione alla valutazione del Giudice di prime cure, ha osservato che il modello 770 della dichiarazione dei redditi e la ricostruzione dell’attività d’impresa della Imas, operata dal consulente dott. L., apparivano particolarmente indicativi del colpevole inadempimento dell’imputato all’obbligo contributivo dell’art. 10-bis d. Lgs. 74/2000. Ha censurato il mancato accantonamento dell’imposta da versare per l’anno 2009. Ha precisato che la spiegazione del dott. L., secondo cui la mancanza di liquidità era da attribuirsi alla particolare attività di produzione e vendita svolta dalla Imas, la quale era solita conseguire l’intero ricavo dei singoli macchinari anche a notevole distanza dalla vendita, non consentiva di ritenere integrata la causa giustificativa dell’omesso pagamento dell’imposta ed anzi, indirettamente, confermava l’insussistenza di una situazione d’insolvenza manifestatasi in modo repentino ed improvviso e tale da scriminare la condotta omissiva del sostituto d’imposta alla stregua di una causa di forza maggiore. Al contrario, era emerso che l’Imas aveva continuato a svolgere la sua attività d’impresa caratterizzata dalle peculiarità anzidette, pur a fronte di un’esposizione debitoria dell’Erario che andava via via incrementandosi, tutelando la sola continuità aziendale. La Corte territoriale ha dimostrato quindi di aver esaminato in dettaglio l’elemento soggettivo, ritenendolo pienamente sussistente, e ciò nonostante l’opposta valutazione del Giudice di Milano in altro procedimento.
La sentenza impugnata è inoltre in linea con la giurisprudenza di questa Corte. Si vedano nel repertorio delle massime, ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 37528/13, Corlianò, Rv 257683, secondo cui nel reato di omesso versamento delle ritenute certificate, la situazione di difficoltà finanziaria dell’imprenditore non costituisce causa di forza maggiore che esclude la responsabilità prevista dall’art.10 bis del D. Lgs. n. 74 del 2000; n. 20266/14, PG in proc. Zanchi, Rv. 259190, che ha affermato che nel reato di omesso versamento di ritenuta certificate, l’imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (fattispecie in cui è stata considerata irrilevante la mancata riscossione di crediti osservando che l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio di impresa); Sez. 3, n. 3124/14, Murari, Rv. 258842, che ha giudicato immune da censure la decisione impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che, per effetto della conoscenza della situazione di irreversibile indebitamento e di gravissima mancanza di liquidità al momento dell’assunzione della carica di amministratore della società, il mancato pagamento si configurava come il risultato di una consapevole decisione dell’agente; n. 8352/15, Schirosi, Rv. 263128, per la quale in tema omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico; fattispecie, nella quale la Corte ha escluso che potesse essere ascrivibile a forza maggiore la mancanza della provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria per effetto di una scelta di politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; n. 43599/15, Mondini, Rv. 265262, che ha affermato il medesimo principio in un’ipotesi di art. 10-ter d. Lgs. 74/2000; più recentemente, n. 46459/17, Olivetto, Rv. 271311, secondo cui risponde del reato di omesso versamento delle ritenute certificate, previsto dall’articolo 10-bis, d.lgs n. 74 del 2000, anche l’amministratore subentrato nella legale rappresentanza dell’impresa, che versi in situazione di difficoltà finanziaria, salvo che dimostri di essere incorso, al momento della consumazione del reato, in errore sul fatto (art.47) ovvero che la sua omissione è dovuta a caso fortuito o forza maggiore: in applicazione del principio la Corte ha ritenuto che la consapevolezza dell’amministratore “pro tempore” dell’avvenuta distrazione, da parte del suo predecessore, della liquidità necessaria al pagamento del debito tributario, non fosse elemento idoneo ad escludere il dolo della condotta omissiva ma, anzi, rendesse la sua condotta omissiva ancor più consapevole.
Sebbene sia in generale auspicabile l’uniforme trattamento di situazioni dello stesso tipo, va, tuttavia, evidenziato che non rientra nelle competenze di questa Corte “uniformare” le sentenze di merito, come pretenderebbe il ricorrente invocando l’annullamento con rinvio, siccome la cosiddetta funzione nomofilattica ha ad oggetto l’interpretazione in astratto delle norme, né sindacare l’applicazione del principio di diritto quando la motivazione non sia viziata ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Nel caso in esame, ciò che è avvenuto è stato che un Giudice ha ritenuto che, pacifico il fatto materiale, l’imputato non era in mala fede all’epoca dell’insorgere dell’obbligazione tributaria e della successiva scadenza, a causa dell’imponente esposizione debitoria derivante da cause giudicate non imputabili a lui bensì all’operazione di acquisto di un ramo d’azienda con tutte le sue passività, ed aveva fatto tutto quanto nella sua disponibilità per adempiere i debiti con l’Erario, pagando puntualmente le rate fino alla dichiarazione di fallimento della società: se era vero che il rischio d’impresa era stato consapevolmente e deliberatamente assunto, era anche vero che egli non aveva determinato la crisi né operato alcuna scelta arbitraria, atteso che aveva esperito tutti i tentativi del caso per poterla arginare e si era attivato alacremente per estinguere il debito tributario. La relativa sentenza di assoluzione non è stata impugnata ed è divenuta irrevocabile. Altro Giudice ha, invece, motivatamente espresso un altro avviso ed apprezzando fatti analoghi è giunto ad una conclusione opposta, perché la situazione d’insolvenza non si era manifestata in modo improvviso e la società aveva scelto la strada della continuità aziendale nonostante l’incremento dell’esposizione debitoria nei confronti dell’Erario. La risposta al primo motivo esonera dall’analisi del secondo e terzo motivo che si risolvono in censure di fatto sul tema già sviscerato della forza maggiore.
Il quarto motivo è del tutto nuovo ed attiene alla mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. In appello il tema devoluto era stato quello dell’applicazione dell’art. 13 d. Lgs. 74/2000. Senza entrare nel merito del contrasto interpretativo se ed a quali condizioni sia ammissibile formulare per la prima volta in sede di legittimità la richiesta della suddetta causa di non punibilità, va osservato che dalla sentenza impugnata comunque non si evince il presupposto del relativo riconoscimento. Premesso che l’evasione contestata è stata pari ad € 293.406,00 e che al momento del fallimento della società residuava il pagamento della somma di e 65.455,55 deve ribadirsi l’orientamento di questa Sezione, secondo cui la causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen. è applicabile solo ad un’omissione vicinissima alla soglia di punibilità (Cass., Sez. 3, n. 13218/16, Reggiani Viani, Rv 266570 e n. 51020/15, Crisci, Rv 265982).
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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