CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 39228 depositata il 29 agosto 2018
reato di omessa dichiarazione –
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 21.11.2017, la Corte d’appello di Campobasso, in parziale riforma della sentenza 26.10.2016 del tribunale di Larino, appellata dal N. e dal PG, condannava l’imputato anche alle pene accessorie previste dall’art. 12, d. lgs. n. 74 del 2000 per la durata di 1 anno, nonché di quella dell’interdizione perpetua dall’ufficio di componente delle CCTT e della pubblicazione della sentenza di condanna sul sito internet del Ministero della Giustizia; rigettava l’appello dell’imputato, confermando dunque la sentenza che lo aveva condannato alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione, per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, IVA ed IRAP, commesso quale legale rappresentante della S. S.p.A., con imposta evasa, in relazione all’anno di imposta 2009, pari ad € 330.482.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del ricorrente, iscritto all’Albo speciale ex art. 613, cod. proc. pen., prospettando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, vizio di motivazione in relazione all’art. 5, d. lgs. n. 74 del 2000. In sintesi, si duole il ricorrente sostenendo che la quantificazione della somma evasa non sarebbe stata determinata con esattezza, non avendo saputo indicare il teste escusso le modalità di calcolo al fine di pervenire all’imponibile su cui applicare la percentuale di imposta evasa; nella sentenza di farebbe riferimento a quanto dichiarato dal M.Ilo T., che aveva riferito che alla determinazione dell’imponibile si era giunti tramite l’analisi delle scritture contabili e del bilancio societario; ciò, tuttavia, avrebbe eluso l’obbligo di motivare sull’eccezione relativa all’indicazione delle modalità di calcolo, atteso che l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito consisterebbe nell’aver ritenuto indeducibili alcune componenti passive del bilancio ex d.p.r. n. 917 del 1986; nella sentenza non sarebbero stati indicati gli oneri dedotti, nonché le ragioni della loro successiva esclusione in seguito alla verifica; infine, si aggiunge, la soglia di punibilità sarebbe stata contabilizzata in seguito ad un accertamento induttivo effettuato esclusivamente dagli uffici finanziari.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, vizio di motivazione in relazione all’art. 133, c.p. Si censura la sentenza quanto al trattamento sanzionatorio, dolendosi il ricorrente non indicando i criteri cui si sarebbe ispirata la Corte d’appello nel confermare quella irrogata dal primo giudice.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile.
4. il ricorso è inammissibile sia per manifesta infondatezza sia perché generico per aspecificità, atteso che non tiene conto delle ragioni esposte dai giudici di primo grado e di appello a confutazione, in particolare, delle identiche doglianze esposte nei motivi di appello. Deve quindi essere fatta applicazione del principio, già affer- mato da questa Corte, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
5. Il ricorso si appalesa, peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, la Corte d’appello, seppure sinteticamente, indica le ragioni per le quali ha ritenuto di non poter accogliere le ragioni dell’allora appellante, non limitandosi soltanto – come sostiene la difesa del ricorrente – a richiamare quanto dichiarato dal M.Ilo T. in ordine alla circostanza che all’accertamento dell’imponibile (determinato in € 1.201.753,00) si era giunti tramite l’analisi delle scritture contabili e del bilancio societario, ma specificando come dal PVC era stato possibile evincere che la p.g., a fronte di una perdita di esercizio pari ad € 2.215.974,00 riportata in bilancio, aveva proceduto a rettificare le componenti passive di reddito ivi indicate, quantificando in € 3.417.726,85 quelle ritenute non deducibili per le ragioni indicate nel PVC a pag. 15, in quanto non rispondenti alle previsioni del d.P.R. n. 917 del 1986; sottraendo da detto importo quello corrispondente alla perdita di esercizio dichiarata, la p.g. era quindi pervenuta ad un valore positivo di € 1.201.753,00 che, applicando l’aliquota IRES del 27,5%, aveva consentito l’individuazione dell’imposta evasa nei termini di cui all’imputazione.
Orbene, si legge in sentenza, a fronte delle articolate valutazioni della PG e, soprattutto, in assenza di una ricostruzione alternativa da parte della difesa, si è ritenuta raggiunta la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sussistenza del reato.
6. Al cospetto di tale apparato argomentativo, appare dunque evidente come le deduzioni del ricorrente siano del tutto prive di pregio.
Ed invero, i giudici – tenuto conto della natura del motivo di ricorso, che solleva esclusivamente una censura di vizio motivazionale in ordine alla asserita mancata indicazione delle modalità di calcolo dell’imponibile su cui è stata poi percentualmente determinata l’imposta evasa – hanno chiaramente offerto una motivazione del tutto coerente rispetto alla censura sollevata, avendo fatto rinvio espresso a quella parte del PVC in cui la GdF aveva proceduto, a fronte di una perdita di esercizio dichiarata pari ad € 2.215.974,00 e riportata in bilancio, a rettificare le componenti passive di reddito ivi indicate, quantificando in C 3.417.726,85 quelle ritenute non deducibili “per le ragioni indicate nel PVC” – specificando anche ove dette ragioni erano state esposte (ossia alla pag. 15 del PVC) -, in quanto non rispondenti alle previsioni del d.P.R. n. 917 del 1986.
Sul punto, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui in materia di controlli fiscali, il processo verbale di constatazione può essere inserito nel fascicolo del dibattimento come documento extra-processuale redatto nel corso di un’attività amministrativa ed essere utilizzato a fini probatori (Sez. 3, n. 6218 del 17/04/1997 – dep. 26/06/1997, Cetrangolo, Rv. 208633). Correttamente, pertanto, i giudici di appello hanno “rinviato” al contenuto del PVC per la individuazione delle modalità di calcolo dell’imponibile, attesa la piena utilizzabilità del PVC elaborato dalla GdF; ed invero, osserva il Collegio, deve essere qui ricordato quanto affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione, ove si è affermato che la motivazione “per relationern” di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000 – dep. 21/09/2000, Primavera e altri, Rv. 216664).
Nel caso di specie, la sentenza di appello ha fatto rinvio ad un atto, il processo verbale di constatazione, noto al contribuente-imputato. Si tratta quindi di un rinvio ad un atto che soddisfa tutti e tre i requisiti sopraindicati, donde legittimamente la Corte d’appello, nel motivare le modalità di calcolo dell’imponibile, vi ha fatto rinvio.
7. Quanto, poi, alle censure relative all’asserito errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito nell’aver ritenuto indeducibili alcune componenti passive del bilancio ex d.p.r. n. 917 del 1986, si tratta di censura generica non indicando il ricorrente quale sarebbe stato l’errore “di diritto” in cui i giudici di merito sarebbero incorsi (non essendo certo sufficiente la mera censura secondo cui nella sentenza non sarebbero stati indicati gli oneri dedotti, nonché le ragioni della loro successiva esclusione in seguito alla verifica, atteso che in ciò consiste la censura di vizio di motivazione, come dianzi specificato, insussistente stante il rinvio per relationem al PVC).
8. Quanto, poi, alla doglianza secondo cui la soglia di punibilità sarebbe stata contabilizzata in seguito ad un accertamento induttivo effettuato esclusivamente dagli uffici finanziari, oltre a rilevarsi l’assoluta genericità della censura a fronte della chiara indicazione contenuta in sentenza secondo cui, a fronte delle articolate valutazioni della PG e, soprattutto, in assenza di una ricostruzione alternativa da parte della difesa, si è ritenuta raggiunta la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sussistenza del reato, è sufficiente in questa sede ribadire che in tema di reati tributari, per verificare il superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, il giudice penale può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo compiuto dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile (Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013 – dep. 04/10/2013, Ottaiano, Rv. 257619, relativo ad accertamento induttivo mediante studi di settore).
9. Quanto, infine, alla censura relativa al trattamento sanzionatorio, ne è palese l’inammissibilità per non aver costituito oggetto di esplicito motivo di appello. Ad ogni buon fine, si osserva, i giudici territoriali motivano le ragioni per le quali hanno ritenuto congruo il trattamento sanzionatorio inflitto dal primo giudice, richiamandosi alla gravità del reato, desumibile dall’imposta evasa, nonché alla negativa personalità del reo, desunta dai plurimi precedenti penali, anche specifici, così giustificandosi lo scostamento della pena base dal minimo edittale, ed il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. Trattasi quindi di motivo che, oltre che essere inammissibile per le ragioni indicate, è altresì manifestamente infondato, avendo adeguatamente indicato la Corte d’appello le ragioni per le quali ha ritenuto di dover condividere il giudizio di congruità della pena inflitta dal primo giudice, così mostrando di fare buongoverno del principio secondo cui deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione del giudice di merito sulla determinazione in concreto della misura della pena allorché siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell’ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all’art. 133 c.p. (v., tra le tante: Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998 – dep. 04/08/1998, Urrata S e altri, Rv. 211582).
10. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.O.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro in favore della Cassa delle ammende.
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