CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 3956 depositata il 13 febbraio 2024
Tributi – Cartella esattoriale – Mancato pagamento imposta speciale per le attività assicurative – Liquidazione coatta amministrativa – Rigetto – vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza
Fatti di causa
La società N.A. Spa era attinta da cartella esattoriale per il pagamento di sanzioni, interessi ed accessori in conseguenza del mercato versamento dell’imposta speciale per le attività assicurative relativamente all’anno fiscale 2011. Reagiva la società contribuente affermando di non essere a lei imputabile il mancato pagamento, giacché in data 7 Aprile 2011 era stata posta in liquidazione coatta amministrativa; quindi, non poteva più procedere al pagamento delle imposte dovute e non ancora scadute a quella data, evidenziando sia la carenza di momento soggettivo sia la carenza di un momento oggettivo, costitutivi del profilo sanzionatorio.
I gradi di merito erano favorevoli alla parte privata, donde ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate affidandosi a tre mezzi, cui replica la parte privata con tempestivo controricorso.
Il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore Generale dottor G.L., ha depositato requisitoria scritta in forma di memoria chiedendo il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Vengono proposti tre mezzi di ricorso.
Con il primo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 4 del codice di procedura civile per violazione degli articoli 132 numero 4 nello stesso codice e dell’articolo 118 delle relative disposizioni di attuazione, nonché degli articoli 36, 53 e 61 del decreto legislativo numero 546 del 1992.
Nella sostanza si lamenta motivazione apparente, consistente in affermazioni in suscettibili di far riconoscere il percorso logico del collegio giudicante.
Con il secondo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di rito per violazione degli articoli 115 e 116 dello stesso codice, dell’articolo 20 del decreto del Presidente della Repubblica numero 602 del 1973, degli articoli 2749 2752 del codice civile, degli articoli 54 e 55 del regio decreto numero 267 del 1942, dell’articolo 249 del decreto legislativo numero 209 del 2005, degli articoli tre e 8 del DPR numero 602 del 1973, degli articoli 23 25 del DPR numero 600 del 1973, degli articoli tre e sei del decreto legislativo numero 472 del 1997 e dell’articolo 13 del decreto legislativo numero 471 del 1997. Nella sostanza si lamenta che il collegio di merito abbia ritenuto giustificato il mancato versamento delle imposte e non dovute le sanzioni perché fino alla data di messa in liquidazione coatta amministrativa il termine non era ancora scaduto, successivamente tale adempimento non era più possibile ed anzi vietato dalla disciplina concorsuale cui la società veniva assoggettata.
Con il terzo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Nella sostanza si afferma che trattandosi di tributi connessi all’attività assicurativa proporzionali ai premi raccolti, debbono intendersi ope legis scaduti, al più tardi, alla data di messa in liquidazione ed è quindi integrato il presupposto fattuale della violazione tributaria contestata ossia l’omesso versamento.
I. Il primo motivo non può trovare accoglimento. Giudice del fatto processuale in base all’invocato parametro di cui al numero 4 dell’articolo 360 del codice di procedura civile, questa Corte riconosce nella sentenza in scrutinio una motivazione coerente ed in grado di indicarne il percorso argomentativo, con riferimento alla disciplina concorsuale, come peraltro lo stesso patrono erariale dimostra di comprendere, con l’articolazione del secondo motivo. Deve premettersi che è ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (Cass. VI- 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014, seguita da Cass. VI – 5, n. 5209/2018). In termini si veda anche quanto stabilito in altro caso (Cass. Sez. L, Sentenza n. 161 del 08/01/2009) nel quale questa Corte ha ritenuto che la sentenza è nulla ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., ove risulti del tutto priva dell’esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (cfr. Cass. V, n. 24313/2018).
Il motivo, dunque, non può essere accolto.
II. Parimenti infondato è il secondo motivo.
La questione del pagamento dei tributi non ancora scaduti al momento di assoggettamento alla procedura concorsuale è stato fatto oggetto di scrutinio da recente pronuncia di questa Corte cui il collegio intende dare continuità.
Ed infatti, è stato affermato che in tema di sanzioni pecuniarie per violazioni delle leggi tributarie, il fallimento del contribuente prima della scadenza del termine di pagamento del tributo non consente di imputare a lui o agli organi della procedura alcuna colpevole inadempienza, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, poiché, prima della dichiarazione dello stato di insolvenza, i termini per effettuare il pagamento da parte del contribuente in bonis non sono ancora scaduti e, dopo tale dichiarazione, in ragione dell’applicazione delle regole del concorso, il pagamento non può più essere validamente eseguito dagli organi della procedura (cfr. Cass. T, n. 26728/2023).
Peraltro, era stato affermato che le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie commesse in data antecedente al fallimento o alla procedura concorsuale del contribuente, costituiscono un credito che soggiace all’applicazione di tutte le regole civilistiche, sia che si verta in una fase fisiologica del rapporto obbligatorio, sia che si verta nell’ambito di una procedura concorsuale, dovendo l’Amministrazione soddisfarsi secondo le regole del concorso nei modi stabiliti dalla legge. Pertanto, è infondata l’eccezione per la quale, in costanza di fallimento, l’esigibilità delle sanzioni tributarie dovrebbe essere congelata, potendo l’amministrazione finanziaria farle valere esclusivamente una volta che il fallito sia tornato “in bonis”, sia perché il fallimento non equivale alla morte dell’imprenditore, tanto che con esso il contribuente non viene privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, sia perché la postergazione del pagamento dei crediti derivanti dalle sanzioni pecuniarie violerebbe la disciplina imperativa di cui all’art. 2752 c.c. e diverrebbe un modo per sfuggire al pagamento delle sanzioni amministrative in danno dell’erario (cfr. Cass. V, n. 23322/2018).
Come si vede, il sistema affinato da questa Suprema Corte di legittimità è chiuso, prevedendo sia il caso di inadempimenti incolpevoli, sia di quelli colpevoli.
Nel caso di specie, peraltro, si verte in questa prima ipotesi, nulla essendo addebitabile alla società per l’inadempimento di un debito non ancora scaduto, né alcunché è addebitabile alla procedura, per non aver saldato un debito attratto alla disciplina speciale. .III. Neppure può essere accolto il terzo motivo ove si lamenta il mancato esame di una doglianza manifestata dall’Ufficio, ovverosia che trattandosi di debiti tributari connessi all’attività assicurativa, questi debbano ritenersi scaduti nel momento in cui detta attività cessa, ovvero alla data di messa in liquidazione coatta amministrativa, poiché comunque il loro versamento è demandato ad un momento successivo alla data di messa in liquidazione e, quindi, comunque attratti alla disciplina concorsuale della legge speciale.
La censura che prospetta profili giuridici e fattuali non si sottrae alla ragione che precede. Ed infatti, quand’anche la tassa sulle assicurazioni venisse a scadere con la cessazione dell’attività assicurativa, resta la circostanza del caso specifico per cui a quel momento la contribuente non poteva più autonomamente disporre delle proprie risorse, nemmeno per gli adempimenti di legge, come per onorare i propri debiti tributari: la cessazione dell’attività assicurativa è dovuta (e contestuale) alla messa in liquidazione coatta amministrativa (sul punto cfr. ancora Cass. T, n. 26728/2023; V, n. 23322/2018; n. 21078/2011; n. 25606/2006). Peraltro, è appena il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016 n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610).
Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente la prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011 n. 27197; Cass. 6 aprile 2011 n. 7921; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 9 settembre 2004 n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).
Né il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009 n. 42; Cass. 17 luglio 2001 n. 9662).
Per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, e denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. Un. 7 aprile 2014 n. 8053). Ed un tanto in disparte dalla circostanza che la censura induca ad un diverso apprezzamento dell’apporto probatorio delle parti -tramite inserimento nel corpo del ricorso di ampi stralci di documentazione eterogenea e di perizia officiata- teso ad ottenere una rivalutazione del merito con esito opposto a quello cui è pervenuto il collegio d’appello. Il ricorso è pertanto infondato e dev’essere rigettato. Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente Agenzia al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro ottomila/00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
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