La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 612 depositata il 18 gennaio 2020 intervenendo in tema di accertamento fiscale ed acquisizione delle prove ha ribadito che “ai fini dell’accertamento in materia di I.V.A., l’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 – richiamato dall’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, applicabile anche per gli accertamenti in materia di imposte dirette – prevede al primo comma l’accesso degli impiegati dell’Amministrazione finanziaria presso i locali adibiti all’esercizio dell’attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo e, al secondo comma, l’accesso presso i locali adibiti ad uso esclusivamente abitativo; nel primo caso è richiesta la sola autorizzazione del capo dell’Ufficio e del Procuratore della Repubblica e tali autorizzazioni si atteggiano come meri adempimenti procedimentali, strettamente legati alla necessità che l’accesso sia avallato da una autorità gerarchicamente e funzionalmente sovraordinata; nel secondo caso, invece, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica presuppone la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria e trova la sua giustificazione nell’inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14 della Cost.”
la vicenda ha riguardato un contribuente titolare di un panificio a cui veniva notificato, a seguito di verifica con accesso ai locali del panificio ed a quelli promiscui, un avviso di accertamento per maggiori ricavi non dichiarati. Il contribuente impugnava il predetto atto impositivo inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva parzialmente le doglianze del contribuente. Avverso la decisione della CTP il contribuente proponeva appello in Commissione Tributaria Regionale. I giudici di secondo grado confermavano la sentenza impugnata. Il contribuente proponeva ricorso in cassazione, avverso la decisione della CTR, fondato su due motivi. In particolare si doleva che locali dove era stato effettuato l’accesso e dove si erano svolte le verifiche, oltre ad avere una destinazione «promiscua» perché adibiti a luogo di esercizio dell’impresa e ad abitazione, rientravano anche nella tipologia dei «locali diversi» in quanto di proprietà di terzi per cui oltre all’autorizzazione del PM i dovevano sussistere i «gravi indizi» di violazioni di norme tributarie.
Gli Ermellini nel rigettare il primo motivo del ricorso hanno precisato che “l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista dal secondo comma dell’art. 52 citato, costituisce un provvedimento amministrativo, il quale si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo ed ha lo scopo di verificare che gli elementi offerti dagli accertatori siano idonei ad integrare gravi indizi” e che nell’ipotesi di locali destinati ad uso abitativo “l’effettiva sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria è soggetta alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda “
I giudici del palazzaccio hanno anche precisato che “si ha destinazione ad uso promiscuo, agli effetti dell’art. 52 del d.P.R n. 633 del 1972, non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività d’impresa, ma ogni volta che l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi”
Infine la Corte Suprema ha statuito che in ogni caso “L’inutilizzabilità non può, invece, riguardare quelle prove che trovano nell’accesso una mera occasione, come è di regola per le informazioni di terzi e soprattutto per le dichiarazioni del contribuente, le quali potrebbero essere raccolte allo stesso modo anche per strada o direttamente presso gli uffici dell’organo deputato all’indagine”.
La Corte di legittimità ha invece accolto il secondo motivo del ricorso ritenendo che i giudici di merito in quanto la sentenza della CTR “risulta del tutto deficitario sul merito della pretesa, poiché non esamina le numerose e specifiche contestazioni mosse dal ricorrente nel giudizio di appello — ritrascritte nel ricorso per cassazione in ossequio al principio di autosufficienza — tutte volte a negare valore presuntivo agli elementi presi in considerazione dall’Agenzia delle entrate e posti a giustificazione della ricostruzione del maggior reddito rilevato”
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