La Cassazione con la sentenza n. 9226 del 27 febbraio 2013 ha statuito un importante principio di diritto: “colui che abbia commesso il reato presupposto non può essere ritenuto punibile anche del reato di riciclaggio per avere sostituito o trasferito il provento del reato presupposto: infatti, non essendo configurabile il delitto di autoriciclaggio, diventano del tutto irrilevanti, ai fini giuridici, le modalità con le quali l’agente abbia commesso l’autoriclaggio, sia che il medesimo sia avvenuto con modalità dirette sia che sia avvenuto, ex art. 48 c.p., per interposta persona e cioè per avere l’agente tratto in inganno un terzo autore materiale del riciclaggio”.
Il ricorso in Cassazione ha origine dalla decisione del giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Cuneo, il quale, dichiarava non doversi procedere nei confronti di D.B.P. per il reato di riciclaggio di denaro derivante dalla bancarotta del gruppo S. Il giudice perveniva alla suesposta conclusione in quanto il D.B. risultava imputato – in concorso con altre persone – del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva del gruppo S. : di conseguenza, non essendo configurabile il reato di autoriciclaggio, all’imputato non poteva, contemporaneamente, essergli addebitato il reato presupposto (bancarotta) ed il riciclaggio del denaro proveniente dal suddetto reato presupposto. Avverso la predetta sentenza, il P.M. proponeva ricorso per cassazione deducendo violazione dell’art. 48 c.p..
Gli Ermellini procedono, inanzitutto, alla ricostruzione degli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza in merito al reato contemplato dall’art. 48 del c.p. concludendo che “Va osservato, infine, che, al di là della formula tralaticia adoperata dalla giurisprudenza nella descrizione della struttura dell’art. 48 c.p., in realtà, poi, nei rari casi in cui si è posto il problema delle conseguenze pratiche dell’accogliere l’una o l’altra tesi, di fatto, si è finito per optare per la teoria della concorsualità: infatti, ad es., proprio in tema di tentativo, è stato ritenuto che ‘presupposto della responsabilità dell’autore mediato è che un fatto costituente reato sia stato commesso materialmente, nella forma del reato consumato o di quello tentato, dall’autore immediato, onde è sempre all’azione di quest’ultimo che bisogna aver riguardo per stabilire se essa integri la fattispecie di un determinato delitto consumato o tentato. Pertanto, nessuna rilevanza penale può attribuirsi all’azione di un soggetto (salvo che essa non costituisca di per sè reato) che abbia tentato di determinare altro soggetto a commettere un reato, mediante atti idonei diretti ad indurlo in errore, ove non si sia verificata l’induzione in errore e per effetto di questa non sia stata realizzata, almeno nella forma del tentativo, la fattispecie legale del reato ad opera dell’autore immediato’: Cass. 2097/1971”
Per cui secondo gli Ermellini il reato di cui all’art. 48 c.p. “ai sensi del quale quando taluno (c.d. deceptus o autore immediato) commette un reato per essere stato indotto in errore dall’altrui inganno (c.d. decipiens o autore mediato), del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo. La S.C. ricorda in particolare come, secondo il proprio tradizionale orientamento, la disposizione in esame configura una forma di reità mediata non assimilabile al concorso di persone, sull’assunto che manca in capo all’autore materiale del reato l’elemento psicologico che consenta di considerarlo un concorrente. Il giudice di legittimità dà poi atto di come tale opinione sia contrastata dalla dottrina maggioritaria, secondo cui l’art. 48 c.p. configura un’ipotesi di concorso di persone nel reato, soggetta alla relativa disciplina.”
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