La Corte di Cassazione sez. penale con la sentenza n. 39096 depositata il 23 settembre 2013 intervenendo in tema di reati fiscali ha statuito che il contribuente è penalmente responsabile per omesso versamento IVA nel caso in cui il valore delle rimanenze del magazzino diminuisca eccessivamente rispetto all’esercizio precedente. Pertanto scatta la presunzione di omesso versamento dell’Iva se il valore delle rimanenze di magazzino diminuisce eccessivamente rispetto all’esercizio precedente. In fase di approvazione del bilancio l’amministratore dell’impresa deve sempre giustificare il decremento dei beni.
La vicenda ha riguardato una società, oggetto di controllo fiscale della Guardia di Finanza, in cui nel bilancio il valore delle rimanenze era passato dall’essere superiore al milione di euro a duecentomila euro senza una ragione specifica. Per cui i militari hanno ipotizzato un’evasione dell’Iva sul rilievo che le rimanenze finali al 31 dicembre 2005 erano pari a euro 1.348.888, mentre quelle indicati al 31 dicembre 2006 erano pari a euro 201.325,00. L’importo della presunta evasione corrisponderebbe, secondo la Guardia di Finanza, alla differenza tra tali due ammontari, per l’anno di imposta 2007, nel quale il valore delle rimanenze era stato azzerato.
Pertanto l’indagato del reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 4 e 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000 diveniva oggetto del decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso dal Gip, confermato anche dal Tribunale. L’indagato avverso l’ordinanza ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione delle norme incriminatrici e degli artt. 2426 cod. civ. e 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, nonché l’insussistenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora.
Gli Ermellini ritengono inammisibile il ricorso. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici di legittimità, evidenziano che il collegio sindacale avesse espresso parere sfavorevole all’approvazione del bilancio, ritenendo che l’amministratore non avesse fornito idonea documentazione giustificativa del decremento delle rimanenze come indicato. Per cui se tale era la situazione, a parere della Corte Suprema, “correttamente il Tribunale ha fatto applicazione dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, sulla premessa che la fattispecie incriminatrice punisce la condotta di chi non versa l’imposta sul valore aggiunto così come riportata in dichiarazione, essendo di per sé elemento costitutivo del reato l’intervenuta presentazione della dichiarazione con l’indicazione dell’Iva a debito e non assumendo alcun rilievo lo stato di difficoltà finanziaria in cui eventualmente versi l’impresa. Per quanto poi concerne il reato di dichiarazione infedele, il Tribunale evidenzia l’assoluta inconsistenza della ricostruzione difensiva – pedissequamente reiterata in sede di legittimità – secondo cui vi sarebbe stata una cessione di parte delle rimanenze che avrebbe diminuito il loro valore. Tale ricostruzione è infatti smentita dalla relazione allegata al bilancio redatto dall’amministratore, nella quale si fa riferimento ad una non meglio precisata e, dunque, inverosimile rapida obsolescenza dei beni in oggetto cui conseguirebbe la difficoltà di porre gli stessi sul mercato. Nessun rilievo possono assumere, dunque, gli intervenuti acquisti o vendite effettuati – in entità peraltro non precisate dallo stesso ricorrente – dalla società nel periodo in oggetto, perché, secondo quanto affermato dallo stesso amministratore oggi indagato, la diminuzione del valore delle rimanenze non era dovuta a tali acquisti o vendite. Quanto, poi, al tempus commissi delicti, deve rilevarsi che il periodo Iva che viene in rilievo è il periodo 2007, con la conseguenza che la confisca per equivalente è stata correttamente applicata ratione temporis, essendosi la relativa condotta consumata nell’anno 2008, con la presentazione della dichiarazione Iva, appunto per l’anno 2007.”
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